Perché è discriminatoria la condotta contro i caregiver assenti da lavoro per permessi legati alla legge 104
- Postato il 25 giugno 2025
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a cura di Gianna Elena De Filippis
Nel suo saggio La Tipo e la notte, Scritti sul lavoro, 1978-1996, tra gli altri, Pietro Ingrao così scriveva: “Ecco cosa sta dinanzi a noi: un grande compito creativo; ecco allora come il discorso sulla Costituzione si lega al presente, a questa grande battaglia da condurre; la Costituzione non vuole omaggi, riti, non vuole inginocchiamenti ma vuole che sia portata avanti nella realtà dalla lotta, perché viva la grande speranza di una società nuova che è scritta in quelle pagine”.
La fattispecie esaminata, di enorme complessità e innovazione, riguarda l’accertamento della natura discriminatoria del comportamento datoriale consistente nel mancato computo delle assenze dei lavoratori per permessi mensili ex lege n.104/92 (per assistenza ai familiari in condizioni di grave disabilità) nella determinazione degli elementi retributivi aggiuntivi-premiali introdotti con la contrattazione aziendale e legati alla effettiva presenza in servizio.
In sostanza, ai lavoratori assenti dal lavoro per permessi ex lege n.104/92 (cosiddetti caregiver), non viene riconosciuto l’elemento retributivo aggiuntivo-premiale legato alla presenza; diversamente, a tale scopo, altri permessi e altre assenze, per voluntas degli stessi contratti aziendali, sono considerati presenze: ad esempio, i permessi sindacali ex art.23, legge n.300/1970. La questione trova il suo nucleo nella disciplina antidiscriminatoria per motivi legati al fattore “handicap”. Nei vari gradi di giudizio si è posta l’attenzione, dunque, sull’accertamento della violazione del principio di parità di trattamento (D.lgs. n.216/2003).
Il principio di parità di trattamento consiste nell’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Il trattamento di minor favore, riservato ai lavoratori caregiver, è chiaramente illegittimo e l’esercizio di un dovere di assistenza non dovrebbe in alcun modo penalizzare chi lo esercita. Le disposizioni “incriminate” dei contratti aziendali, in sostanza, apparentemente neutre e/o imparziali, collocano i caregiver in una palese posizione di particolare svantaggio rispetto ad altri lavoratori.
La sentenza n.2217/2023 della Corte d’Appello, Sez. Lavoro, di Roma, creando un precedente giurisprudenziale nuovo, ha accertato l’esistenza della condotta discriminatoria aziendale a danno dei lavoratori fruitori dei permessi ex lege n.104/92, con contestuale riconoscimento del risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, oltre l’ordine di immediata cessazione del comportamento discriminatorio. La causa in esame è oggi giunta dinanzi al Collegio della Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza n.1877/2024; è stata “collegata” ad altra causa di analogo elevato tenore contro la stessa società di trasporto pubblico locale romano per la quale è stato disposto rinvio per questione pregiudiziale in Corte di Giustizia dell’Unione Europea (causa C-38/24) e si è in attesa del verdetto finale della stessa.
Nelle more della decisione della C.G.U.E., nel frattempo, si è anche pronunciato con una intensa memoria il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione chiedendo formalmente il rigetto del ricorso presentato dalla società e l’integrale accoglimento delle istanze dei lavoratori.
L’argomento trattato rientra senza dubbio nell’alveo dell’ormai noto diritto antidiscriminatorio. Trattasi di un ramo del sapere giuridico che “afferma” i diritti fondamentali legati alla “persona” in sé, nelle sue caratteristiche, peculiarità e intime originalità individuali, meritevoli di protezione, e sanziona in modo molto peculiare la condotta datoriale, con un onere della prova affievolito in capo al lavoratore discriminato.
Lo schema è molto vicino a quello del diritto penale e della “pena” quale sanzione giuridica pecuniaria (dissuasiva, effettiva e proporzionale) da infliggere per avere violato un “bene giuridico di rilevante interesse pubblico”, a prescindere dalla stretta dimostrazione del danno subito, tipico, invece, del diritto civile puro. Una sanzione pecuniaria molto simile a quelle amministrative (L.n.689/1991) e a quelle civili per i reati depenalizzati (D.Lgs.n.7/2016). È, dunque, un sistema fondato sulla concretezza di un’automatica “afflittività” ma in funzione prevalentemente dissuasiva, deterrente, scoraggiante e, quindi, sicuramente provvido di risultati concreti.
In generale, il diritto del lavoro che è il principe dei diritti “umani”, quale fonte e strumento di emancipazione individuale e di dignità e decoro della persona, non può più prescindere da certe profonde argomentazioni filosofico-politiche che pongono al centro degli interessi l’Uomo. L’egoismo narcisista universale di questa epoca non si nasconde e, anzi, si dichiara ogni giorno in ogni contesto, anche tra simili e tra appartenenti alla stessa “compagine”. Oggi, in questa drammatica verità storica emerge con tutta la forza possibile la necessità di un ripristino dell’agire collettivo e sociale anche per mezzo e soprattutto dell’opera incessante e più ispirata dell’avvocatura e dell’amministrazione giudiziaria.
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