La storia tragica di Douglas Dall’Asta e il doppio rifiuto che lo Stato deve scongiurare

  • Postato il 24 giugno 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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La notizia mi ha colpito in pieno volto. Un messaggio, due telefonate: Douglas Dall’Asta si è tolto la vita. L’avevo conosciuto di persona a Roma, durante la presentazione del libro scritto insieme alla giornalista Valentina Reggiani, Figlio di Nessuno, ove si narrava la sua non facile vicenda. Fu dopo la cerimonia, davanti a un caffè preso nei pressi della Galleria Alberto Sordi, che ebbi modo di intravedere i solchi dolorosi della sua breve esistenza, di intuirne la fragilità.

Seduti davanti alla tazzina ascoltavo la scansione spaventosa della sua breve vita: abbandonato in un orfanotrofio brasiliano a tre anni, adottato da una famiglia italiana a otto, e dopo appena quattro giorni, riconsegnato. Mentre mi parlava del suo cane, dei progetti, dei sogni, della sua ironia gentile sulla mia piccola città, narrava il lento scivolare verso la marginalità: la strada, la droga, l’erranza. Finché non trovò il coraggio di riscrivere la sua storia, affidando alle parole il tentativo disperato di trovare un posto nel mondo. Scrittura che non ha potuto cancellare la cicatrice originaria dell’abbandono, la ripetizione del trauma.

Sì, perché clinicamente di questo parliamo: chiamarsi fuori dalla vita quando essa espone alla ripetizione di un trauma, in questo caso la messa alla porta, è l’esito finale al quale è esposto che patisce l’onda lunga dell’esclusione. Chi opera nel campo clinico ha il dovere di fornire strumenti alla politica, affinché il legislatore esca dai meri tecnicismi e comprenda la delicatezza dell’accogliere chi porta nel corpo e nell’anima la ferita del rifiuto, supportando i ragazzi e le famiglie adottive. Un figlio adottato da un altrove lontano non è solo un nuovo membro di famiglia: è un altro, portatore di una storia perturbante, a tratti inquietante, come solo il dolore antico sa essere. Questi ragazzi, spesso figli di mondi sommersi, già scartati una prima volta, non possono incontrare quel doppio rifiuto che li porta a vivere di nuovo quelle situazioni di marginalità che si pensavano superate per sempre.

Per questo è necessaria un’alleanza tra clinica e politica, che abbia il coraggio di contemplare la precarietà dell’animo umano esposto al trauma dell’abbandono. Un’alleanza che sappia sostenere le famiglie affidatarie, spesso non adeguatamente preparate. Il legislatore deve sapere che la melanconia è uno stato dell’animo che predispone a passaggi all’atto di tipo suicidario che spesso lasciano sorpresi amici e parenti. Il melanconico patisce un antico fuori scena, una condizione di esclusione ab inizio, un fuori squadra come dato costitutivo. Nella triangolazione edipica, egli non è stato introdotto, non ha trovato forti mani che ne abbiano circoscritto e protetto il posto. Egli occupa così una posizione permanente di oggetto suscettibile di caduta non tanto perché più vulnerabile a certi eventi della vita, ma perché portatore di provvisorietà radicale ed innata, condizione che tanti melanconici cercano di neutralizzare nel corso della vita cercando un posto che la possa scongiurare.

L’obbiettivo di questa stabilizzazione dell’essere è quello di scongiurare la ricaduta nella ancestrale posizione di cosa, di oggetto messo a lato. Nel momento in cui il legame si sfilaccia, o come in questo caso si ritrova ad essere non accettato, egli è irrimediabilmente risucchiato verso una posizione primigenia. In molti casi l’uscita di scena è subitanea e richiama il passaggio all’atto (‘Il lasciarsi cadere è essenziale a qualsiasi improvvisa messa in rapporto del soggetto con ciò che esso è in quanto oggetto’ insegna Lacan). Per ragazzi come Douglas il rifiuto patito mette in luce e spoglia una condizione più fragile, elevandola a sistema e generando l’esito fatale.

Si badi: nessun facile dito puntato contro le famiglie affidatarie, spesso in buona fede e impreparate a gestire l’angoscia di un nuovo arrivo. Piuttosto urge un appello al legislatore affinché le metta in grado di gestire l’ingresso di un individuo disomogeneo, diverso, a tratti perturbante. Lo Stato deve offrire strumenti simbolici, psicologici, culturali per accogliere la complessità di chi arriva da mondi remoti, spesso abitati dal silenzio e dall’indicibile. Freud definisce perturbante quell’elemento che, dietro alla facciata di normalità dapprima accolta, racchiude quei fattori che generano spavento e allontanamento. I ragazzi accolti dalle zone povere del mondo sono individui che possono celare elementi angoscianti, domande di accoglimento poste con modalità a noi desuete, soggetti spesso disabituati alla parola e ridotti a puro copro che cerca di interagire. È qui che il legislatore deve agire: prevenire, formare, accompagnare. Dotare nuclei affidatari di strumenti simbolici adeguati, ripensando radicalmente i paradigmi occidentali dell’infanzia, dell’accoglienza e della genitorialità.

Durante la giornata presieduta dall’onorevole Stefania Ascari, ricordo due figure essenziali. La giornalista Reggiani, che gli offrì la possibilità di raccontare, pubblicamente, il suo percorso tormentato. E l’avvocato Gianluca Barbiero, che si prese a cuore la sua vicenda umanamente e legalmente, dopo averne ottenuto la fiducia. Fu lui, in quella sala, ad affermare con fermezza che quel ragazzo aveva dei diritti che non potevano essere ignorati.

Grazie al loro impegno, Douglas è uscito — almeno per un tratto — da quella zona d’ombra e di marginalità nella quale le circostanze della vita lo avevano confinato, divenendo così titolare e testimone della sua storia trasmissibile. Ma quel prodigarsi, per quanto generoso, non è stato sufficiente. Le stanze dell’anima, chi lavora nella clinica lo sa, restano spesso insondabili, opache, percorse da correnti improvvise e misteriose. E così, nonostante gli sforzi sinceri di chi lo circondava, è bastato un istante di buio a spegnere ogni possibile infiltrazione di luce.

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