I problemi di salute mentale dilagano: per curarli, bisogna tener conto anche delle contraddizioni sociali
- Postato il 27 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Sara Gandini e Paolo Bartolini
L’Ansa ci comunica che i problemi “mentali” sono in crescita in tutta Europa. Una persona su tre, che soffre di disturbi psicologici, non riesce a ottenere le cure adeguate. Nell’articolo si legge, inoltre, che “con la pandemia di Covid19 i casi di ansia e depressione sono aumentati del 25%”.
A livello mondiale più di una persona su otto convive con disturbi mentali, con depressione e ansia tra i più diffusi. Questi problemi colpiscono in modo particolare giovani e adolescenti, influenzati da pressioni sociali e incertezze sul futuro, ma anche anziani che affrontano solitudine e declino cognitivo. Povertà, disoccupazione e accesso limitato alle cure aumentano la vulnerabilità, così come vivere in aree svantaggiate o in paesi a basso reddito.
Qualcuno davvero può fingere stupore? Sbaglieremmo, tuttavia, se considerassimo questa situazione terribile sotto la lente esclusiva del sapere clinico. Il malessere, psicologico ed esistenziale, dilaga per molte ragioni, tutte connesse tra loro. Siamo nel mezzo non solo di una fase caotica del tecno-capitalismo e dei rapporti internazionali (dove l’uso della forza continua a fare strame dei bei discorsi sul diritto e sulle regole di convivenza tra i popoli), ma di un mutamento antropologico innescato dalle politiche emergenziali e di guerra, dalle tecnologie digitali e da un’accelerazione insostenibile degli stili di vita, modellati troppo spesso sui cicli simmetrici di produzione e consumo.
A cinque anni dalla pandemia, lo smart working è diventato una realtà consolidata in Italia, passando da 570mila lavoratori da remoto nel 2019 a 3,55 milioni nel 2024, con una previsione di crescita al 2025 che raggiungerà circa 3,75 milioni. Tuttavia, la digitalizzazione del lavoro porta con sé anche nuove sfide per la salute mentale dei lavoratori. La conferenza europea “Connected Minds, Caring Workplaces” ha evidenziato la necessità di mettere la salute mentale al centro delle politiche istituzionali, riconoscendo i rischi psicosociali legati all’isolamento, alla difficoltà di comunicazione, alla cultura del “sempre connessi” e all’eccesso di riunioni online, che generano stress, ansia e burnout. Anche l’introduzione di tecnologie avanzate come intelligenza artificiale e robotica crea incertezze e insicurezze sul futuro del lavoro.
La campagna Healthy Workplaces 2023-2025, dedicata alla salute e sicurezza sul lavoro nell’era digitale, ha evidenziato dati preoccupanti sull’impatto della digitalizzazione sulla salute mentale dei lavoratori. Secondo l’indagine OSH Pulse 2022, quasi la metà dei lavoratori (il 46%) percepisce una forte pressione temporale o un sovraccarico di lavoro legato all’uso degli strumenti digitali. Inoltre, il 44% sostiene che le tecnologie digitali contribuiscono a creare un senso di isolamento durante l’attività lavorativa.
Chi utilizza regolarmente dispositivi digitali segnala maggiori difficoltà: il 27% di questi lavoratori riferisce livelli più elevati di stress e problemi di salute mentale rispetto a chi ne fa un uso limitato o nullo. A questo si aggiunge il fatto che il 37% dichiara di soffrire di affaticamento generale, mentre un altro 27% riporta sintomi riconducibili a stress, ansia o depressione. L’uso quotidiano di dispositivi digitali ha anche portato un terzo dei lavoratori a segnalare un aumento del carico di lavoro, mentre il 19% ha percepito una riduzione della propria autonomia professionale. Questi dati mettono in luce le sfide che la digitalizzazione porta con sé, richiedendo un’attenzione sempre maggiore alla tutela del benessere psicologico sul posto di lavoro.
Nel frattempo il mondo della cura medica e psicologica opera spesso nella speranza (vana) di “eliminare” il disagio, i sintomi, per ricondurci a un buon “funzionamento” e quindi adeguato a questa società. Ne è testimone l’aumento vertiginoso di consumo di psicofarmaci, soprattutto antidepressivi. Se la nostra risposta al caos conserverà il suo taglio “militare”, puntando a una normalizzazione della sofferenza che non sfiori minimamente le contraddizioni sistemiche della civiltà della dismisura, allora prepariamoci alla crescita di breakout psichici in gran parte della popolazione.
Sul versante collettivo, come in quello personale, i sintomi vanno ascoltati per cogliere il loro messaggio. E i sintomi contemporanei – ansia, depressione, autosvalutazione, crollo del desiderio, ipercontrollo, paura di costruire legami, incapacità a simbolizzare i vissuti – denunciano il senso di abbandono degli umani immersi nella tecnosfera e nell’economia di mercato. Un senso di alienazione pieno di rabbia e disperazione, che deve ricevere – oggi più che mai – una cura integrata che eccede ampiamente gli studi degli psicologi e riguarda tutta l’impalcatura traballante del nostro modo di esistere.
Serve una cura che, finalmente, tenga insieme consapevolezza e impegno civile, biografia e storia, per restituire ai nostri tempi malati un’opportunità di rinascita. Non possiamo più fingere che gli individui siano creature “a sé stanti”, perché la realtà è ben diversa: siamo nodi di una rete, viviamo dentro intrecci di relazioni costitutive. Da qui bisogna ripartire, riscoprendo sentieri di pace e di conflitto generativo, liberandoci insieme dal trauma collettivo che ci paralizza con il suo sortilegio. Trauma che attiene, a nostro avviso, al lento declino dell’Occidente e alle convulsioni che esso porta con sé.
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