Gli Usa hanno salvato Israele da una guerra di logoramento contro l’Iran che non poteva vincere
- Postato il 27 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Giacomo Gabellini
L’Operazione Midnight sferrata dagli Stati Uniti contro gli impianti nucleari iraniani ha prodotto risultati di grande rilievo. L’azione, anticipata con largo anticipo da Washington a Teheran, avrebbe secondo la direttrice della National Intelligence Tulsi Gabbard “devastato i siti nucleari iraniani”, sebbene un’analisi della Defense Intelligence Agency e le stesse esternazioni formulate dal vicepresidente JD Vance suggeriscano un impatto di gran lunga più contenuto.
È, in altri termini, alquanto improbabile che l’impatto reale degli attacchi statunitensi contro gli impianti iraniani trovi preciso riscontro nella narrazione confezionata ad arte da Washington. Cionondimeno, la “verità politica” di cui l’amministrazione Trump ha tratteggiato i contorni si è rivelata funzionale a interrompere quantomeno in via provvisoria un conflitto che stava prendendo una piega decisamente sfavorevole a Israele. Paese, quest’ultimo, condannato a ricercare successi militari in tempi estremamente brevi dalle sue peculiari specificità: ridotte dimensioni geografiche; una struttura demografica relativamente esigua, disomogenea (10 milioni di abitanti, di cui oltre 2 milioni di etnia araba) e concentrata in pochi centri urbani; un’economia votata alla modernizzazione tecnologica ma altamente terziarizzata e dipendente dalle importazioni.
Sotto il profilo militare, Israele dispone di una imponente flotta di caccia e di un’architettura antimissilistica multistratificata, che combina sistemi di fabbricazione autoctona e statunitense. Il sostegno incrollabile accordato dagli Stati Uniti e dai Paesi europei è risultato finora fondamentale a compensare alla paralisi economica in cui Israele è piombato sulla scia delle dinamiche innescate dallo scatenamento dell’Operazione al-Aqsa Flood ad opera dai guerriglieri palestinesi il 7 ottobre 2023.
Alla crescita asfittica è andato a combinarsi un deficit di bilancio in forte espansione (6% del Pil) destinato inesorabilmente a gravare come un macigno sul debito pubblico (prossimo ormai alla soglia del 70% del Pil), ma necessario per sostenere lo sforzo bellico aperto su più fronti (Striscia di Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Yemen) dal governo Netanyahu e rivelatosi tanto dispendioso in termini di mezzi e uomini quanto povero di risultati concreti. Il costo della sola campagna militare nella Striscia di Gaza, calcola la Bank of Israel, avrebbe richiesto fino ad ora qualcosa come 67 miliardi di dollari.
L’Iran, viceversa, è il 18esimo Paese al mondo per estensione geografica (1,65 milioni di kmq) e il 17esimo per popolazione (quasi 92 milioni di persone), dotato di una struttura demografica fortemente disomogenea (24 milioni di azeri, oltre a curdi, luri, arabi, beluci e turkmeni), di una popolazione universitaria di grande spessore sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo e di un’economia imperniata sull’industria. Temprata da decenni di sanzioni e da una sanguinosissima guerra con il vicino Iraq (1980-1988), la Repubblica Islamica ha sviluppato una notevole capacità di resistenza alle sollecitazioni esterne, oltre a un tessuto produttivo in grado di soddisfare autonomamente gran parte della domanda interna di beni e servizi.
La punta di lancia dell’apparato militare iraniano è indubbiamente costituita dall’arsenale missilistico, composto da migliaia di vettori di ogni tipo – da rimasugli degli anni ’80 agli ipersonici più moderni – accumulati nel corso di decenni di preparazione a un conflitto con l’asse Stati Uniti-Israele. A differenza degli aerei israeliani, che devono essere manovrati da piloti addestrati di tutto punto e riforniti in volo per raggiungere il territorio iraniano, i missili iraniani risultano particolarmente “economici” ed efficaci, assicurando un rapporto costi/benefici di gran lunga migliore.
L’Operazione Rising Lion scatenata da Israele nella notte del 13 giugno ha inflitto un duro colpo alla Repubblica Islamica, con le forze speciali appoggiate a reti di collusione interna che hanno distrutto e/o messo fuori uso radar e sistemi di difesa aerea aprendo la strada alle incursioni aeree. Nell’arco di poche ore, i velivoli israeliani hanno colpito depositi di munizioni, rampe di lancio, infrastrutture militari di vario genere e gli edifici in cui risiedevano sia alti ufficiali delle forze armate e dei pasdaran, sia scienziati coinvolti a vario titolo nel programma nucleare iraniano.
A partire dal giorno successivo, tuttavia, l’Iran ha avviato una rappresaglia missilistica scaglionata in più riprese che ha palesemente colto di sorpresa Israele. Le prime sventagliate, comprensive di decine di missili di vecchia fabbricazione, si sono concentrate su una molteplicità degli obiettivi, al fine di costringere la controparte a disperdere le capacità antiaeree su tutto il territorio. Una volta appurato che le riserve israeliane di intercettori (particolarmente costosi e complessi da produrre) erano ridotte al lumicino e che Tel Aviv le aveva schierate a protezione delle strutture più critiche come l’impianto nucleare di Dimona, sono partiti gli attacchi successivi, che hanno registrato l’impiego di missili vecchi e moderni contro obiettivi sensibili in città cruciali ma lasciate necessariamente sguarnite come Tel Aviv e Haifa.
Quella che il governo Netanyahu aveva immaginato come un’operazione lampo volta allo smantellamento del programma nucleare iraniano e magari al cambio di regime a Teheran si è così trasformata in una guerra di attrito, che Israele non è sufficientemente attrezzato per sostenere. Di qui l’intervento “teatrale” statunitense in soccorso di Israele, scattato dopo che, scrive Yedioth Ahronoth sulla base di confidenze rese da anonimi funzionari israeliani, il governo Netanyahu aveva manifestato alle controparti di Teheran disponibilità ad accettare una tregua.
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