Il governo Meloni che impugna la legge toscana sul salario minimo è ancora una volta dalla parte dei poteri forti
- Postato il 5 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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La decisione del governo Meloni di impugnare la recente legge regionale della Toscana che assegna un piccolo punteggio premiale alle imprese che offrono un salario lordo minimo di 9 euro induce a fare qualche considerazione sull’azione governativa in questo campo.
La questione salariale è importante per ogni governo. Per due ragioni. La prima è di tipo macroeconomico. Il salario è la fonte principale della domanda aggregata, e quindi della spesa dei consumatori. Se non cresce la massa salariare anche l’economia langue. La seconda riguarda i redditi dei singoli che, ovviamente, i politici hanno convenienza a veder crescere come segno del loro buon governo.
Come ha operato in questi tre anni il governo Meloni sul fronte dei salari, tenendo conto anche del problema causato dalla grande inflazione bellica? Il risultato è abbastanza chiaro e inequivocabile: Meloni è sempre stata dalla parte dei poteri forti, di Confindustria in primis, ma anche delle varie consorterie e corporazioni che incrostano l’economia italiana. Le liberatorie lenzuolate di Bersani sono solo un vecchio ricordo. L’esperienza governativa ha trasformato, abbastanza rapidamente in verità, la leader di una destra sociale e antagonista al sistema nella docile ancella della più retriva destra padronale. Vediamo nel dettaglio i tre punti focali: il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici, il rinnovo di quello dei dipendenti privati e infine la questione del salario minimo.
1. Sul primo punto, Meloni ha seguito, peggiorandola, la linea del governo Berlusconi facendo pagare ai dipendenti pubblici la crisi finanziaria causata dall’inflazione. Nel 2011 Berlusconi aveva scandalosamente sospeso per legge ogni aumento salariale dei dipendenti pubblici, sospensione durata fino al 2016 quando la Corte Costituzionale la eliminò pur senza recupero, con un gravissimo danno economico. Peggio ancora ha fatto Meloni riconoscendo per il periodo ’22-’24 un modesto aumento contrattuale che copre appena un terzo dell’inflazione. L’incremento è stato del 6% contro una inflazione cumulata nel triennio superiore al 16%. Le entrate pubbliche in questi anni sono volate in ragione dell’inflazione, ma i soldi sono stati dirottati altrove. Con i governi della destra in 14 anni i pubblici dipendenti hanno perso più del 20% del loro salario, un vero disastro economico.
Un dipendente pubblico dovrebbe ricordarsi di questo quando nel 2027 la destra farà le solite promesse elettorali, poi sistematicamente disattese, di una valorizzazione del settore pubblico. Come datore di lavoro Meloni ha dimostrato un accanimento retributivo nei confronti dei suoi dipendenti che non si era mai visto da parte di un Presidente del Consiglio.
2. Sul rinnovo dei contratti dei dipendenti privati, il governo si è comportato come le famose tre scimmiette: non vedo, non sento e non parlo. Nelle molte tornate contrattuali ancora aperte il governo non ha mai fatto sentire la sua autorevole voce, lasciando che siano le parti a sbrigarsela. Con i contratti non rinnovati da molti mesi, il tempo lavora per la parte padronale che nelle more contrattuali incamera i pingui profitti da inflazione. Fanno eccezione alcuni settori ampiamente privilegiati, come le banche e le assicurazioni. Qui i profitti da oligopolio, abbondanti e intoccabili per la classe politica, hanno consentito aumenti contrattuali anche maggiori dell’inflazione. Confindustria vorrebbe poter fare come il governo, cioè tagliare i salari reali non adeguandoli all’inflazione, ma nel settore privato il gioco è molto più difficile, prendendo tempo per i rinnovi. Di fronte a questa tattica dilatoria il governo tace, e così è complice.
3. Rimane la questione del salario minimo, fissato per l’Italia a 9 euro per convenzione internazionale. Il governo è passato dalla strategia passiva, negare l’importanza del problema, a quella attiva dell’impugnazione della legge regionale. Già è curioso che un governo che vuole l’autonomia differenziata poi contesti una legge regionale esercitando il suo potere d’imperio. Detto questo, non ci sono ragioni economiche per negare un salario dignitoso come previsto dall’art. 36 della Costituzione, ma solo pregiudizi ideologici a tutela degli imprenditori che lucrano su salari indecenti. Almeno il governo, se avesse un po’ a cuore la sorte dei tre milioni di lavoratori ora ampiamente sfruttati, dovrebbe approvare la legge sulla rappresentanza sindacale, così da eliminare lo scandaloso fenomeno dei contratti pirata, che prevedono salari regolari anche da 6 euro lordi all’ora.
Tutto nero allora sul fronte dei salari con il governo Meloni? Direi di sì, ma c’è anche di più. Il governo Meloni ha trasformato la fiscalizzazione degli oneri sociali iniziata con Draghi, che andava invece eliminata, in un sostanzioso bonus salariale. Ora, dopo il bonus Renzi, abbiamo una seconda tranche di un parassitario salario di Stato. Ma sostituirsi alle imprese e pagare un salario di Stato a milioni di lavoratori con i soldi dei contribuenti non è normale sul piano economico, anche perché, molto banalmente, i soldi nelle casse pubbliche non ci sono. Il salario di Stato del duo Renzi-Meloni ci porta sulla china disastrosa di un perenne populismo fiscale.
In un paese normale gli aumenti salariali sono pagati dalle imprese e provengono dagli incrementi di produttività, come dal recupero dell’inflazione. Un governo serio dovrebbe fare la sua parte per sorvegliare che questo processo avvenga ordinatamente e velocemente, cominciando dai suoi milioni di dipendenti. La Lega di Salvini recentemente aveva fatto un’ottima proposta di un parziale aggancio automatico dei salari all’inflazione, subito ritirata.
Che la proposta di un automatismo salariale poi venga dalla destra e non dal fronte progressista, su questi temi timido se non pauroso, ci dice quanto strana e confusa sia la situazione politica italiana in cui tutto si rimescola. Peraltro, un fronte unito per difendere i salari sarebbe una cosa opportuna e giusta, sia per la società che per l’economia.
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