Venticinque anni dalla tragedia del Kursk, ovverossia metafora della Russia

  • Postato il 12 agosto 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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La tragedia del Kursk, ovverossia metafora della Russia. Il sommergibile classe K 141 del Progetto 949A, orgoglio della Marina russa, colò a picco il 12 agosto del 2000, giusto venticinque anni fa, trascinando negli abissi del Mar di Barents, al largo di Murmansk, i 118 membri dell’equipaggio. Era il fiore all’occhiello della flotta strategica nucleare, varato a Severodinsk appena sei anni prima: trasportava 24 missili, poteva essere operativo sino a 300 metri di profondità, era considerato l’arma più efficace contro le portaerei nemiche.

Quel giorno il Kursk salpò per partecipare ad una grande esercitazione navale a cui partecipavano un’altra trentina di unità di superficie e altri sottomarini. Alle 11:28, così appurò la macchinosa e ancor oggi non del tutto chiarita inchiesta, ci fu un’esplosione che squarciò i compartimenti di prua. Ad esse ne seguì un’altra. Le due esplosioni uccisero sul colpo 95 dei 118 marinai. I 23 superstiti, guidati dal tenente capitano Dmitri Kolesnikov, che aveva 27 anni, si asserragliarono in un compartimento non danneggiato. Ma avevano risorse d’ossigeno scarse, buone per respirare ancora altri tre o quattro giorni, ad essere ottimisti. Kolesnikov sperava che i soccorsi sarebbero intervenuti in tempo.

Lo scafo del Kursk si era posato a 108 metri di profondità. Ma Kolesnikov non aveva tenuto conto della burocratica e negligente macchina organizzativa (e politica) della Marina, la cenerentola delle forze armate per quanto riguardava finanziamenti e investimenti. Il protocollo standard dell’esercitazione prevedeva un primo segnale di verifica un’ora dopo l’uscita dal porto. La centrale operativa non lo ricevette. E neanche ci fu alcun contatto via radio dopo le consuete 3-6 ore. Nonostante il silenzio che avrebbe dovuto mettere in allarme la flotta, la Marina non reagì. Dopo undici ore, il Kursk fu dichiarato “disperso”.

Cosa aveva provocato quelle esplosioni? La Marina, sia pure con riluttanza, concluse che i siluri in dotazione al sottomarino – Tolstuska tipo 65-76, utilizzato dal 1976 – erano stati i “colpevoli”: il loro liquido propulsore era altamente infiammabile e, non bastasse, era pure molto corrosivo, costringendo a cambiare regolarmente tutti i serbatoi che lo contenevano, così come tutti i circuiti in cui transitava. Probabilmente, questa manutenzione non era stata accurata, prima del lancio fatale d’esercitazione. Questi siluri furono messi fuori servizio dopo l’incidente.

Ma torniamo al 12 agosto del 2000. Le ricerche cominciarono dunque in grosso ritardo. Non solo: il governo russo all’inizio rifiutò le offerte di aiuto internazionali. Il neo presidente Putin, eletto da appena tre mesi, era in vacanza a Soci: continuò imperturbabile a restare nella residenza, mentre gli alti papaveri della Marina, timorosi nei suoi confronti, dapprima minimizzarono il fatto e poi cercarono di insabbiare il disastro, la peggiore catastrofe mai capitata in tempo di pace. Passarono tre giorni prima che le famiglie venissero informate (discretamente e con la preghiera di non divulgare la notizia per ragioni di sicurezza di Stato). Fu inutile, tutto questo tentativo di tenere celato l’incidente.

I media, allora non ancora inginocchiati nei confronti del Cremlino come oggi, non risparmiarono le critiche: “La reputazione della leadership russa giace sul fondale del mare di Barents”, fu uno dei tanti titoli. Pervi Kanal, il primo canale tv russo a quei tempi nelle mani dell’oligarca Boris Beretzovskij che sarà poi costretto a mollare tutto e a riparare in Inghilterra (dove morirà apparentemente suicida, in circostanze molto controverse), paragonò l’incidente del Kursk a quello di Chernobyl. E non fu l’unico: “La tragedia del Kursk ripete tratto dopo tratto la catastrofe di Chernobyl”, scrisse la Novaja gazeta dove lavorava Anna Politkovskaja, implacabile accusatrice delle malefatte militari in Cecenia e delle pratiche assai opache di Putin, ex ufficiale del Kgb, poi direttore dell’Fsb (i servizi eredi dell’intelligence sovietica), indi premier nel 1999 e l’anno dopo successore di Boris Elstin al Cremlino.

Una “Chernobyl militare”, continuava il giornale, “una vergogna per la flotta e per le forze armate. Ma anche una Chernobyl politica, che destabilizza fortemente il presidente Putin. Nemmeno le morti e gli smacchi in Cecenia hanno scatenato reazioni così forti tra la gente”.
Già. La tragedia del Kursk e, soprattutto, l’indifferenza putiniana sollevarono un’ondata di indignazione popolare. Al celebre Larry King della Cnn, che gli chiedeva cosa fosse successo al Kursk, Putin rispose freddamente “Ona utomila”, “è affondato”. Le autorità avevano negato ogni responsabilità all’inizio, salvo poi essere costrette ad ammettere qualche giorno dopo che lo era.

Putin espresse soltanto quasi due settimane dopo la sua “profonda solidarietà” alle famiglie delle vittime, che incontrò il 20 agosto. Non aveva o non volevo andare spiegazioni. Ma affermò che nessun alto ufficiale militare sarebbe stato ritenuto responsabile del disastro. Nel frattempo, la Russia fu costretta ad accettare l’aiuto delle unità specializzate di recupero norvegesi e britanniche che quello stesso 20 agosto raggiunsero lo scafo per constatare che nessuno era sopravvissuto.

Putin, tuttavia, sfruttò la tragedia del Kursk per accusare gli editori dei media: “Hanno rubato soldi, hanno comprato giornali e tv e ora stanno manipolando l’opinione pubblica”. Fu talmente meschino da insinuare che le vedove intervistate dai giornalisti fossero invece delle prostitute ingaggiate da Beretzovskij. Accuse che divennero minacce e costrinsero il patron del primo canale russo a vendere le sue azioni. E così fece anche Vladimir Gusinski, proprietario della Ntv. Chi osava indagare sulla vicenda era sottoposto a intimidazioni, aggressioni, persecuzioni. Fu l’inizio della violenta repressione nei confronti dei media.

I corpi dei poveri 118 marinai furono recuperati un anno e mezzo dopo. Alle famiglie fu corrisposto un risarcimento, corrispondente a 10 anni di stipendio, circa 720mila rubli, al cambio del tempo 26mila dollari, una miseria. Svetlana Kuznetova, vedova dell’ufficiale Viktor Kuznetov, ebbe il coraggio di dichiarare alla Bbc: “Non sono affatto sicura che ci verrà detta la verità al cento per cento. Ci saranno solo versioni diverse, il nostro Paese è fatto così”, ammise rassegnata. Nel 2005 diverse famiglie decisero di ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo perché indagasse sulla tragedia. Secondo loro, i 23 sopravvissuti alle due esplosioni potevano essere salvati se la Marina russa si fosse mobilitata tempestivamente: la prova che fossero rimasti vivi nella trappola d’acciaio stava in alcune note scritte dal tenente capitano Kolesnikov.

Il caso, tuttavia, fu archiviato, per ragioni non del tutto plausibili. Probabilmente per non creare tensioni con il Cremlino. Karol Kewes Karol (i lettori del Manifesto e di Le Monde Diplomatique lo conoscono come K.S.Karol), grande conoscitore dei Paesi comunisti e dei Paesi dell’Est, fu impietoso dalle colonne di Le Monde: “Per omissione, calcolo, lassismo, per ignoranza o per incompetenza, il potere e le forze armate hanno ancora una volta dimostrato che, se vi è un settore in cui la Russia è imbattibile, è quello della menzogna ufficiale. Tuttavia, il culto del segreto e della manipolazione, un tempo efficace, è ormai smascherato. C’è stata innanzitutto una disorganizzazione delle istituzioni statali che confina col ridicolo. Ma, soprattutto, il potere deve ormai tenere conto d’avere a che fare con i media molto più liberi”. Ottimista, Karol (scomparso nel 2014). Proprio perché “più liberi”, il potere impersonificato da Putin e dalla sua cerchia magica – in gran parte personaggi legati al vecchio Kgb e al “nuovo” Fsb – non poteva tollerare una spina nel fianco così insidiosa.

La collera popolare rifiutava le pratiche di una volta, ma sarebbe stata “educata” da una costante propaganda e culto della personalità, dalla visione “patriottica” della geopolitica putiniana che esalta la “storia unica della Russia”, anche perché il presidente russo ha saputo cogliere la frustrazione del popolo russo, già provato dal decennio eltsiniano in cui si era sviluppata un’estrema povertà contrapposta alla sfacciata ricchezza degli oligarchi, delle seimila cosche mafiose che controllavano il 40 per cento delle risorse (come disse Putin in un suo discorso alla nazione), e alla mattanza che aveva trasformato il Paese in balìa dei regolamenti di conti, della corruzione e della sudditanza nei confronti di un’Occidente rapace (affaristi senza scrupoli trafficavano coi boss locali).

Putin conquistò la fiducia dei russi, nonostante il disastro del Kursk, spacciandosi per il “risolutore” dell’economia e il padrino del nuovo benessere che avrebbe portato ai cittadini, in cambio di ordine e sicurezza. Non è stato così, il sistema corrotto è diventato nel corso degli anni, secondo lo storico Vladimir Fédorovski, “aberrante” (Trump Putin e Ivan il Terribile, ed. Balland, 2025). La narrazione che è stata inculcata in questi 25 anni è che l’Occidente non voleva uccidere il comunismo, ma la Russia. Una narrazione che non ha mai convinto i familiari delle 118 vittime e tutti coloro che non hanno mai smesso di dimenticare quella tragedia frutto di “negligenze varie”. Perché Putin continuava a stare in vacanza mentre i ventitré marinai superstiti stavano lentamente soffocando al largo della costa di Murmansk? Perché Mosca ha atteso quattro giorni prima di accettare l’aiuto straniero, guarda caso il tempo d’esaurimento dell’ossigeno nel compartimento in cui stavano (erano queste le stime…)? La risposta più ovvia è: per orgoglio. Quella vera era impedire che i superstiti parlassero.

Solamente al decimo anniversario la Marina russa cominciò a disporre simboliche manifestazioni di cordoglio e memoria: da allora, ogni 12 agosto, il lutto è palesato su tutte le navi delle quattro Flotte russe, la croce di Sant’Andrea blu su fondo bianco è a mezz’asta, ufficiali e marinai osservano un minuto di silenzio, in numerose guarnigioni i preti ortodossi recitano preghiere, a San Pietroburgo si celebra una messa speciale. Al cimitero Serafimovski, le famiglie dei marinai morti si ritrovano per ricordare il loro sacrificio, vedove, madri e figli dispongono rose rosse sulle tombe, in questa necropoli riposano le spoglie di decine di migliaia degli abitanti di Leningrado morti di freddo e fame durante il lungo assedio cominciato nel 1941, ma anche quelle di numerosi eroi e patrioti che caratterizzarono la tumultuosa storia russa. In realtà, qui vi sono le tombe di 32 marinai del Kursk, compresa quella del comandante Ghennadi Liashin. Gli altri 86 riposano in una miriade di altri cimiteri sparsi per messa Russia.

Sul marmo delle lapidi si legge la data “12-08-2000”. Quella della morte. Salvo in quella di Dmitri Kolesnikov: “08-2000”. E’ lui che scrisse la lista dei nomi di chi era rimasto vivo, dopo i due scoppi. Intrappolato, disperato, ma lucido, nella sua tenuta d’ordinanza e di sopravvivenza, lasciò un messaggio anche alla moglie: “Non cedere alla disperazione”. Queste parole sono scolpite nel monumento in memoria dei marinai scomparsi, al cimitero Serafimovski.

Venticinque anni fa Alexander Rutskoi, l’ex vicepresidente di Elstin nonché governatore della regione di Kursk (quella della più colossale battaglia di carri armati della storia), ebbe l’onestà intellettuale di ammettere che la Russia aveva perso “non solo un sottomarino, ma la sua idea di nazione”. Lo stato di decomposizione dei corpi ritrovati (ottobre 2001) pareva quello in cui si trovavano le forze militari russe, in particolare quelle della Marina. Il Paese che aveva inviato nello spazio il primo uomo, che da dieci anni manteneva in orbita la stazione Mir e che aveva l’arsenale atomico più vasto del mondo, si era dimostrato incapace di aprire lo scafo del sottomarino, quello che invece i sub norvegesi hanno fatto in un attimo.

Era la fotografia di un Paese alle prese con un improvviso crollo dello status di superpotenza, e anche con la responsabilità di una società più aperta. Il relitto del Kursk fu in fondo l’alibi politico (e militare) di Putin: scelse di riportare la Russia al rango che aveva un tempo. Non si dovevano più tagliare i fondi alle forze armate. Ma tagliare la “troppa” libertà.

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