Sedie vuote tra le istituzioni alla Giornata dell’accoglienza: mancanza di rispetto ma anche segnale politico

  • Postato il 3 ottobre 2025
  • Blog
  • Di Il Fatto Quotidiano
  • 4 Visualizzazioni

di Tareke Brhane*

Sono passati dodici anni dal naufragio del 3 ottobre 2013, quando davanti a Lampedusa morirono 368 persone. Dodici anni durante i quali abbiamo provato a trasformare quel dolore in memoria, quella memoria in coscienza collettiva, quella coscienza in cambiamento politico. Ma a dodici anni di distanza dobbiamo constatare che, salvo poche eccezioni, poco è cambiato se non il numero dei morti.

La XII Giornata della Memoria e dell’Accoglienza ha portato a Lampedusa centinaia di giovani da tutta Italia ed Europa, insegnanti, studiosi, famiglie delle vittime, sopravvissuti e cittadini comuni. Sono arrivati per imparare, condividere storie, ricordare i nomi, interrogarsi sul presente e sul futuro delle migrazioni. Hanno attraversato l’isola con i loro passi e la loro curiosità, hanno ascoltato testimonianze, partecipato a laboratori, discusso di diritti umani e giustizia. Ma ancora una volta le istituzioni italiane ed europee hanno scelto di non esserci.

Sedie vuote, silenzi assordanti. L’assenza fisica e simbolica di chi ha il potere e il dovere di cambiare le cose. Non era un atto protocollare quello che chiedevamo: era un gesto minimo di assunzione di responsabilità. Guardare negli occhi i sopravvissuti, stringere la mano ai familiari delle vittime, ascoltare chi da anni lotta per la dignità di chi non c’è più.

L’assenza delle autorità non è solo una mancanza di rispetto: è un segnale politico. Significa che la morte di migliaia di esseri umani alle nostre frontiere continua a essere tollerata come un effetto collaterale. Significa che la memoria viene lasciata alla società civile e alle scuole, mentre chi decide rimane altrove.

Uno dei temi che da dodici anni ci sta più a cuore è l’identificazione delle vittime. Non chiediamo l’impossibile: chiediamo che chi muore nel Mediterraneo abbia un nome, che i corpi non vengano sepolti come “sconosciuti”, che le famiglie abbiano il diritto a un certificato di morte, a una tomba, a un luogo di lutto. È una questione di umanità, di diritto internazionale, di civiltà giuridica. Eppure, dopo promesse e tavoli tecnici, dopo relazioni parlamentari e dichiarazioni ufficiali, un sistema stabile e operativo per identificare i morti in mare non esiste. I familiari continuano a peregrinare tra uffici, ambasciate, laboratori di DNA, spesso senza risposte.

Nel frattempo le rotte diventano sempre più letali. Gli accordi con Paesi che non garantiscono diritti fondamentali spingono le persone su vie più lunghe e pericolose. Cambiano i punti di arrivo — dalla Libia alla Tunisia, dalla Sicilia alla Calabria — ma resta la stessa dinamica: chi cerca protezione e futuro incontra respingimenti, trafficanti e il rischio di morire annegato senza che nessuno ne conosca il nome.

Di fronte a questo, il lavoro della società civile non basta più. Ogni anno a Lampedusa ci impegniamo a educare le nuove generazioni alla memoria, perché capiscano che dietro ogni numero c’è una persona; organizziamo incontri, mostre, marce silenziose fino alla Porta d’Europa; creiamo spazi di dialogo tra studenti italiani e sopravvissuti, tra famiglie in lutto e comunità locali. Lo facciamo con risorse limitate e grazie a reti di volontariato e di scuole.

Ma la memoria non può rimanere solo una questione di impegno dal basso: serve una scelta istituzionale chiara e coraggiosa.

Quest’anno, più che mai, mi ha colpito la maturità degli studenti. Sono arrivati da regioni diverse, molti per la prima volta su un’isola di confine. Hanno fatto domande difficili: “Perché non si cercano i morti?”, “Perché chi sopravvive spesso non trova accoglienza?”, “Perché l’Europa chiude i porti?”. Domande che un ragazzo di 17 anni ha il coraggio di fare, mentre chi governa spesso le elude.

Noi continueremo a chiedere:
– identificazione dei cadaveri, con protocolli chiari e risorse dedicate;
– vie legali e sicure di ingresso, per non costringere migliaia di persone a rischiare la vita su
barconi improvvisati;
– politiche di soccorso trasparenti, che non criminalizzino chi salva vite;
– memoria istituzionale, affinché il 3 ottobre non resti un anniversario confinato a un’isola lontana, ma diventi patrimonio nazionale ed europeo.

Ricordare non è un rito sterile, è un atto politico. È dire che la vita di chi muore alle nostre frontiere conta, che i valori fondanti dell’Europa — dignità, diritti umani, solidarietà — non sono negoziabili.

Se oggi la XII Giornata della Memoria ha un significato è perché centinaia di studenti, insegnanti, cittadini e sopravvissuti hanno deciso di esserci. Ma la loro presenza, per quanto potente, non basta a colmare il vuoto lasciato da chi avrebbe il compito di garantire che tutto questo non si ripeta. Dodici anni dopo, il Mediterraneo è ancora un cimitero. Ma non sarà mai un cimitero senza memoria. Continueremo a pronunciare nomi, a chiedere giustizia, a insegnare che l’indifferenza è la forma più pericolosa di complicità.

* Presidente, Comitato 3 Ottobre

L'articolo Sedie vuote tra le istituzioni alla Giornata dell’accoglienza: mancanza di rispetto ma anche segnale politico proviene da Il Fatto Quotidiano.

Autore
Il Fatto Quotidiano

Potrebbero anche piacerti