Usa e Venezuela giocano una partita a scacchi: si avvicina lo scacco matto, ma tutto può cambiare

  • Postato il 3 settembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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La tensione torna ad alzarsi nel Mar dei Caraibi. Tre navi da guerra statunitensi — la USS San Antonio, la USS Iwo Jima e la USS Fort Lauderdale — sono attualmente posizionate al limite delle acque internazionali, a pochi chilometri dalle coste venezuelane. Il loro dispiegamento non è simbolico: Washington ha deciso di alzare il tiro contro il regime di Nicolás Maduro, e i segnali sono inequivocabili. La recente operazione contro un’imbarcazione carica di droga proveniente dal Venezuela, durante la quale 11 persone sono rimaste uccise, è stata rivendicata direttamente da Donald Trump, che ha ricollegato l’incidente alla crescente minaccia rappresentata dal narcotraffico con base a Caracas.

Ma non si tratta di un episodio isolato. Secondo fonti giornalistiche autorevoli, sarebbe stato uno dei figli di Joaquín “El Chapo” Guzmán a fornire informazioni compromettenti su Maduro, descrivendolo come parte integrante di una rete transnazionale di traffico di stupefacenti e riciclaggio. Queste dichiarazioni, assieme alle prove già in possesso dell’intelligence americana, avrebbero contribuito al nuovo posizionamento militare e al rilancio della taglia da 50 milioni di dollari offerta per la cattura del presidente venezuelano — una cifra che lo pone ai vertici della lista dei criminali più ricercati dagli Stati Uniti, sopra anche ai leader di Al-Qaeda e dello Stato Islamico.

A questa crescente pressione esterna, Maduro ha risposto con una serie di mosse che oscillano tra la provocazione retorica e il tentativo di ricompattare il fronte interno. Ha mobilitato le milizie popolari, richiamando alla “difesa armata della patria” in caso di aggressione, e ha letto pubblicamente una lettera dell’ex presidente Cipriano Castro — figura storica del nazionalismo venezuelano — cercando di evocare lo spirito di resistenza anti-imperialista. Contestualmente, ha ordinato la liberazione di 13 prigionieri politici, tra cui due cittadini italiani (non però quella del cooperante Alberto Trentini), scelta che, pur non risolvendo la questione dei centinaia di oppositori ancora detenuti illegalmente, appare come un gesto calcolato per placare le critiche internazionali e riaprire canali diplomatici.

Sul fronte giudiziario, un’altra novità significativa arriva dalla Corte Penale Internazionale. Il procuratore Karim Khan, accusato da tempo di conflitto d’interessi per i legami tra alcuni suoi familiari e il team legale che assiste Maduro, è stato rimosso dal caso Venezuela. Tuttavia, il procedimento resta formalmente aperto. Le organizzazioni per i diritti umani denunciano da mesi la mancanza di imparzialità e chiedono che l’indagine venga affidata a un ufficio indipendente, in grado di assicurare trasparenza e giustizia per le vittime di torture, detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate.

Intanto, a livello geopolitico, i segnali che arrivano da Mosca e Pechino parlano chiaro. Dopo l’incontro tra Vladimir Putin e Donald Trump, volto a discutere un’ipotetica roadmap sulla guerra in Ucraina, il Cremlino avrebbe cominciato a raffreddare il proprio sostegno a Maduro, sospendendo forniture militari e limitando gli scambi tecnici. Un riposizionamento che alcuni analisti interpretano come un sacrificio tattico per ottenere concessioni sul fronte europeo. La Cina, pur mantenendo un basso profilo, ha fatto sapere attraverso canali informali che non sosterrà scenari di destabilizzazione in America Latina, e che una transizione ordinata in Venezuela sarebbe preferibile per tutelare i propri investimenti strategici nella regione.

In questo contesto, la Colombia di Gustavo Petro gioca una partita ambigua: da un lato, il presidente colombiano ha ricevuto i ringraziamenti ufficiali da Maduro per aver disposto un rafforzamento militare lungo il confine comune, gesto che molti leggono come un modo per evitare infiltrazioni armate o escalation non controllate; dall’altro, Bogotá continua a sostenere, almeno formalmente, il dialogo come unica via d’uscita alla crisi venezuelana.

Eppure, proprio il concetto di “dialogo” appare sempre più svuotato. Gli Stati Uniti sembrano puntare a una soluzione negoziata, sì, ma condizionata al disarmo del regime, al rilascio di tutti i prigionieri politici e a un piano credibile di transizione democratica. In altre parole: una uscita di scena pilotata, che consenta a Maduro di evitare un processo internazionale, ma che metta fine al chavismo come modello di potere.

La partita, dunque, si complica. I movimenti recenti ricordano una fase avanzata di una partita a scacchi, in cui le pedine si spostano lentamente ma con precisione, avvicinandosi al momento decisivo. E in questo gioco ad alta tensione, tra bluff, minacce e aperture tattiche, il Venezuela si avvicina a uno “scacco al re” che potrebbe ridisegnare l’intero equilibrio geopolitico del continente. Ma attenzione, perché la storia ci insegna che a Caracas ogni mossa può ancora cambiare la partita.

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Il Fatto Quotidiano

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