Trump vuole il Nobel per la Pace: che Oslo lo premi o meno, ha già vinto a livello comunicativo
- Postato il 6 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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È vero che Donald Trump se ne inventa ogni giorno una, dai dazi al ruolo di paciere mondiale mentre chiede all’Europa più soldi per le armi americane, ma non ha mai nascosto la sua vera ossessione: ottenere il Premio Nobel per la Pace.
Negli ultimi mesi, la sua attività diplomatica in questo senso si è moltiplicata, con dichiarazioni roboanti su Ucraina, Palestina e – più di recente – sul ruolo della Cina. Ma più che un percorso coerente verso la stabilità internazionale, la sua sembra una vera e propria campagna promozionale, con tanto di slogan, supporter e foto opportunamente diffuse.
Sul fronte ucraino, Trump ha rilanciato l’idea di mediazioni dirette, persino ipotizzando l’impiego di forze di interposizione straniere come quelle cinesi. Una mossa che, più che convincere Kiev o Mosca, sembra pensata per mostrare al mondo che senza di lui la pace è irraggiungibile. In Palestina, ha promesso soluzioni rapide e decisive, salvo poi avanzare ipotesi di “amministrazione internazionale” della Striscia di Gaza (per non parlare del progetto di farne una riviera per ricchi) che hanno fatto gridare all’ingerenza e, in alcuni casi, addirittura a tentativi di ingegneria etnica.
Dietro a tutte queste proposte non appare un piano strutturato, ma una narrativa, uno storytelling ben congegnato, quello dell’uomo testosteronico, tornato al potere, che prende in mano dossier irrisolvibili e li trasforma in vittorie personali. A sostegno della sua corsa al Nobel non mancano voci. Paesi come la Cambogia hanno già annunciato l’intenzione di candidarlo per il ruolo nella tregua con la Thailandia. In Italia, Matteo Salvini ha dichiarato che Trump “ha fatto più per la pace in poche settimane di quanto Biden abbia fatto in quattro anni.” Alcuni leader africani hanno avanzato richieste analoghe, contribuendo a gonfiare il fronte dei supporter.
Il meccanismo comunicativo è evidente, ogni endorsement diventa un mattone nella costruzione dell’immagine del “paciere globale.” Ma proprio quando Trump cerca di monopolizzare la scena, entra in campo la Cina. A Pechino, Xi Jinping ha celebrato una parata militare potente e imponente, affiancato da Putin e Kim Jong-un, lanciando un messaggio di forza e di alternativa all’ordine internazionale dominato dagli Stati Uniti. Trump ha reagito con rabbia, accusando i tre leader di “cospirare contro l’America” e lamentandosi perfino che la Cina non abbia “ringraziato” gli Stati Uniti per il ruolo avuto nella Seconda Guerra Mondiale.
Anche gli avversari interni non mancano. John Bolton, ex consigliere per la sicurezza nazionale, definisce la sua politica estera “incoerente e priva di sostanza.” Molti osservatori americani sottolineano come Trump esageri il proprio ruolo nei vari conflitti mondiali, attribuendosi meriti storicamente contestabili. La narrativa dei “sei conflitti fermati” viene liquidata da più parti come propaganda. Inoltre, il Comitato per il Nobel ha criteri molto più rigidi di quanto Trump immagini. Solo alcune personalità autorizzate – professori universitari, ex premi Nobel, membri di parlamenti nazionali – possono presentare candidature, e sempre entro il 31 gennaio. Le motivazioni rimangono segrete per cinquant’anni e i premi vengono assegnati solo a chi ottiene risultati tangibili e duraturi.
Certo, venne assegnato inopinatamente a Obama che neanche aveva fatto un decimo delle promesse e dichiarazioni di Trump, ma il vero punto è che, indipendentemente dall’esito, il presidente ha già vinto sul piano della comunicazione. Ha già legato il suo nome alla parola “pace,” ha creato un dibattito internazionale in questo senso e messo in difficoltà i suoi avversari interni. Che Oslo lo premi o meno, l’obiettivo è stato raggiunto: alimentare il mito dell’uomo indispensabile.
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