Smettiamo di chiedere alle donne di salvare la moralità della politica! Il genere non è uno scudo etico

  • Postato il 4 dicembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Per anni ci siamo raccontati una storia rassicurante: le donne, una volta arrivate al potere, sarebbero più refrattarie alla corruzione, più attente al bene comune, meno inclini ai giochi sporchi che da sempre segnano la politica e gli affari. Una narrazione comoda, utile a legittimare le – sacrosante – politiche di parità, ma che oggi, alla prova dei fatti, mostra tutte le sue crepe. Il caso di donne in posizioni apicali, coinvolte in vicende giudiziarie di estrema gravità, racconta un’altra verità: quando una donna entra davvero nel cerchio del potere, entra anche nel suo lato oscuro. Non è il genere a fare da diga al malaffare, ma la qualità – o l’assenza – delle istituzioni che dovrebbero contenerlo.

Ed è qui che il “mirabile testo” dei colleghi Lucio Picci e Alberto Vannucci, Lo Zen e l’arte della lotta alla corruzione, che invito a leggere, viene sistematicamente tradito da una lettura ideologica che gli è estranea. Nel celebre passaggio in cui, evocando Benigni, si chiedono “la donna, la donna, la donna… o l’omo?”, gli autori ricordano che molti studi empirici e sperimentali sembrano mostrare, in media, una minore propensione femminile alla disonestà: più attenzione ai beni comuni, minore tolleranza verso i comportamenti scorretti, maggiore disponibilità a sacrificare il vantaggio privato a favore dell’interesse collettivo. Ma nello stesso capitolo precisano, con onestà intellettuale, che a contare non sono i cromosomi, con buona pace del ministro della Giustizia, bensì la struttura dei valori culturali e l’assetto istituzionale.

La “robustezza del presidio femminile” nei Paesi meno corrotti, spiegano gli autori, è soprattutto il sintomo di uno Stato inclusivo, meritocratico, trasparente, capace di valorizzare competenze e responsabilità, anche femminili. È l’ambiente che genera legalità, non il sesso di chi occupa le poltrone.

Il problema nasce quando questa riflessione sofisticata viene ridotta, nel dibattito pubblico, a uno slogan: più donne ai vertici uguale meno corruzione. Da quel momento, la correlazione complessa si trasforma in dogma morale, e il dogma viene usato come surrogato di riforma istituzionale: invece di cambiare regole, controlli, trasparenza, ci si illude che basti cambiare il genere dell’élite. I casi recenti non confutano Picci e Vannucci, confutano questa lettura ingenua.

Là dove la selezione della classe dirigente avviene dentro partiti chiusi, cordate affaristiche, filiere di potere cementate da scambi opachi, l’ingresso delle donne non purifica nulla: semplicemente rende misto ciò che prima era esclusivamente maschile. Se per fare carriera bisogna accettare un certo grado di complicità, di silenzio, di partecipazione alle pratiche borderline, questo varrà allo stesso modo per uomini e donne. E infatti vediamo progressivamente emergere figure femminili in tutte le zone grigie del sistema: nei consigli di amministrazione, nelle giunte, nelle interfacce tra politica, burocrazia “creativa” e imprenditoria relazionale.

Chiamarle in causa come presunte “traditrici del genere” è un comodo esercizio misogino, ma nasconde il punto essenziale: non sono loro ad aver corrotto il sistema, è il sistema ad averle inglobate, selezionandole proprio perché compatibili con le sue regole non scritte.

Da giurista, la prima cosa che va ribadita è ovvia ma decisiva: tutte le persone citate nelle cronache giudiziarie – donne o uomini che siano – sono presunte innocenti fino a sentenza definitiva. Ma questo non ci impedisce di interrogarci sul piano politico e criminologico. Se, man mano che la presenza femminile aumenta, nell’elenco degli indagati per corruzione, appalti truccati, finanziamenti distorti, significa che una parità l’abbiamo effettivamente raggiunta: la parità nell’accesso al rischio penale. È la conferma che il genere non è uno scudo etico, ma una variabile sociologica che incrocia potere e opportunità.

In fondo, l’idea della donna “anticorpo naturale” contro la corruzione ha svolto due funzioni simmetriche. Da un lato, ha offerto a governi, partiti e burocrazie un alibi a basso costo: invece di aprire archivi, tracciare i flussi, rafforzare controlli indipendenti, bastava inserire qualche figura femminile nei gangli decisionali o nei vertici delle Istituzioni e rivendere l’operazione come svolta etica. Dall’altro, ha caricato le donne di un compito impossibile: redimere moralmente strutture che restavano perfettamente intatte.

Oggi, quando un’inchiesta investe una leader donna, lo stesso sistema che l’aveva esibita come simbolo di integrità se ne serve per l’operazione opposta: dimostrare che “sono tutte uguali”, che la questione di genere era solo una moda, e riportare il discorso sul terreno rassicurante del cinismo generalizzato. È un gioco a somma negativa che fa due danni: indebolisce il femminismo politico serio, quello che chiede potere e responsabilità a pieno titolo, e rende ancora più difficile guardare alla corruzione per ciò che è davvero: un fenomeno sistemico, che nasce nei meccanismi di formazione delle decisioni pubbliche, nella privatizzazione degli spazi di controllo, nella cattura delle istituzioni da parte di reti organizzate.

Il vero insegnamento del libro di Picci e Vannucci, oggi, dovrebbe essere questo: smettiamola di chiedere alle donne di salvare la moralità della Repubblica. Concentriamoci finalmente su ciò che davvero può ridurre il malaffare: procedure trasparenti, dati aperti, responsabilità personali tracciabili, organi di controllo indipendenti e in grado di indagare chiunque, senza distinzione di sesso, ruolo o appartenenza. La parità più urgente, in Italia, non è tra donne oneste e uomini disonesti, ma tra cittadini e cittadine ugualmente tutelati da istituzioni che funzionano. Il resto è retorica, spesso in malafede.

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Il Fatto Quotidiano

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