Prima di Sinner il migliore fu l’ispido Nic: perché Pietrangeli poteva vincere molto di più

  • Postato il 5 dicembre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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La scomparsa di Nicola Pietrangeli ha scatenato nel vostro blogger ottuagenario un’ondata di antichi ricordi; riportandolo ai tempi lontani del tennis presunto “romantico”, prima dell’avvento del professionismo. Anche se sulla purezza disinteressata dei nostri eroi di allora è meglio stendere un velo pietoso (voci ricorrenti dell’epoca raccontavano sottovoce come la Federazione Italiana Tennis FIT erogasse paghette per il campione defunto nei giorni scorsi per consentirgli di resistere alle sirene della Troupe Kramer, il team di campioni che aveva aggirato per primo il divieto di giocare a scopo di lucro).

Resta il fatto che prima dell’avvento dei Sinner boys Pietrangeli è stato di gran lunga il migliore tennista italiano. Non certo per atletismo, semmai un giocatore dal braccio d’oro e con un rovescio che incantava. Inguaribilmente “terraiolo” – come i suoi colleghi dell’epoca Beppe Merlo e Fausto Gardini – riuscì perfino nell’impresa – in coppia con Orlando Sirola – di battere gli “erbivori” statunitensi in un’epica semifinale giocata sul green australiano nel 1960. Per poi soccombere in finale contro l’Australia. Ma a quell’epoca i “canguri” erano i veri marziani della racchetta, con una nidiata di talenti inarrivabili: Ken Rosewall, Neale Frazer, Roy Emerson e, schiena permettendo, l’apollineo Lew Hoad; con il plus del più grande talento tennistico mondiale prima di Roger Federer. Rod Laver, il mancino rosso di capelli (come un certo Jannik) che batté nella finale di quella Davis il nostro Pietrangeli.

Ho ancora negli occhi il ricordo del singolare copricapo in tela a forma di campanula con cui si difendeva dal sole cocente della stagione australe quell’immenso campione (unico vincitore di due grandi Slam, uno nel 1962 prima di passare al professionismo, l’altro sette anni dopo quando i tornei divennero open).

Va comunque detto che l’arrogante Nic italo-tunisino era un giocatore completo, che se non si fosse impigrito nel ponentino romano avrebbe potuto vincere molto di più in campo internazionale di due Roland Garros. La vittoria che ha trasformato in icona anche il suo successore sul trono di signore degli Internazionali d’Italia al Foro Italico. Ma il simpatico Adriano Panatta (riciclato in piacevolissimo telecronista sportivo) aveva un repertorio di colpi più limitato del predecessore. Ad esempio il passante, che andava in crisi quando l’avversario conquistava la rete prima di lui. Ricordo le sue sofferenze giocando contro il John Alexander non eccelso ma abile nel serve-and-volley, che lo batteva regolarmente. Un australiano che già allora superava la taglia – oggi sul normale – del metro e novanta, coprendo con l’estensione del braccio gran parte del campo di gioco.

Dunque, una narrazione dei tempi eroici che il ripristino della memoria porta a ridimensionare. Come – francamente – andrebbe demistificata perfino l’epica impresa della prima vittoria nella coppa Davis 1976 in Cile. A tale proposito si tende a silenziare il fatto che l’evento di Santiago, tre anni dopo il golpe cileno con mattanza del generale fellone Pinochet e la morte del presidente Allende, era stato ostracizzato dalla pubblica opinione mondiale. Tanto che la semifinale venne disertata per protesta dalla squadra dell’Urss; per cui la nostra si trovò il sentiero d’accesso facilitato alla finale.

Un’occasione irripetibile per una squadra che non aveva mai vinto una Davis e che ora poteva conquistarla contro la modestissima formazione dei padroni di casa. Allora fu il capitano non giocatore – proprio Nicola Pietrangeli, notoriamente destrorso e simpatizzante per Pinochet – a imporre la controversa partecipazione. Da qui la vittoria di cui la grancassa nazionalistica ha cancellato le ombre.

Semmai immacolate sono le vittorie degli ultimi tre anni, seppure in una Davis che è l’ombra della manifestazione clou di un tempo. E due di queste portano la firma di Jannik Sinner, il capofila dell’attuale stagione d’oro del nostro tennis. Alla faccia degli improvvisati nazionalisti della racchetta che ne hanno stigmatizzato l’assenza all’ultima edizione. A riprova che il metro di giudizio di costoro non gli consente di capire lo specifico del tennis. Specie in questa orgia di propaganda nazionalistica sul bellico, culminata negli spot TV delle Olimpiadi della neve in cui si proclama l’essenza ferrea dello spirito nazionale di un popolo mollaccione quale il nostro. Semmai Sinner è anti-italiano per la determinazione assoluta nell’applicazione e nel miglioramento con cui ha conquistato il podio sportivo mondiale.

Quel duopolio tennistico dello scugnizzo iberico e del principino italico, l’uno di fuoco e l’altro di ghiaccio, che sta scrivendo un’epopea che non consente demistificazioni. Una volta tanto italiana al 50%. E che meriterebbe nuovi cantori alla Gianni Clerici e Rino Tommasi; non sciovinisti fuori registro alla Bruno Vespa o il feticista del capello Ivan Zazzaroni, inconsapevoli che la Val Pusteria è – nonostante loro – ancora territorio nazionale.

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Il Fatto Quotidiano

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