Romania, Jugoslavia e Bulgaria: dittatura, famiglia e lirismo
- Postato il 19 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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“Non escludo di andare a Bucarest per lasciare questa lettera sulla tua tomba. Sarebbe un’occasione per leggere il tuo nome inciso nella pietra. Continua a essere morto, Nicolae; lo fai molto bene. Ti ho raccontato tante cose. Credo anche di averti insultato due o tre volte. Ora che i ricordi e la rabbia sono stesi sulla carta, mi rendo conto che ho un’ultima parola da dirti. Non è facile da pronunciare; mi rimane di traverso in gola come un pezzo di pane raffermo. Eppure, in tutta onestà, te la devo. E questa parola è: grazie”.
Lettera al mio dittatore, di Eugène (traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi; Bottega Errante Edizioni), è un testo ironico, originale e intimo che racconta il rapporto “a distanza” tra l’autore e Nicolae Ceaușescu. Nel novembre 1975, Eugène, che aveva sei anni, arrivò in Svizzera con il fratello maggiore. Entrambi si riuniscono ai genitori, fuggiti dalla Romania nel luglio del 1974. Ricordi personali e storia si intrecciano in una lunga lettera al defunto “Conducator”, attimi di vita comune in Romania, viaggi “vietati” e famigliari a Bucarest, rappresentazioni di devastante povertà collettiva e di processi farsa, analisi di edificazioni epocali all’insegna del kitsch d’ispirazione nordcoreana, orfani, cani randagi, decreti che vietano l’aborto, canzonature, nostalgie, rabbia e speranza.
Il testo è un viaggio a trecentosessanta gradi dentro una dittatura contemporanea e mi ha fatto venire in mente un passaggio di un testo di un autore balcanico, l’albanese Darien Levani, che nel suo primo libro tradotto in Italia, Solo andata, grazie. I popoli degli abissi, faceva rispondere a uno dei suoi personaggi alle critiche a Enver Hoxha mosse da un italiano: “Sì, ha fatto cose orrende, ma è pur sempre il mio dittatore”. Come a dire: noi, che l’abbiamo vissuto, ci siamo guadagnati il diritto di parlarne, bene o male, non voi. Questo dal mio punto di vista rende libri come quello di Eugéne genuini e credibili, molto più sinceri dei tanti pamphlet dei tuttologi nostrani che narrano ciò che mai, lontanamente, hanno vissuto.
“È stato fatto notare a Durrell che la decisione del signor Clifford è stata presa sulla base di numerose osservazioni giunte sia dagli studenti, che lo hanno accusato di pigrizia e scarsa presenza alle lezioni, sia dagli impiegati dell’ambasciata britannica e da parecchi colleghi, conoscenti e vicini di casa argentini, che si sono lamentati della sua vita immorale e dei festini da lui organizzati, pari ad autentiche orge. In presenza del comitato, Durrell non ha smentito le accuse riportate ma ha risposto di essere un poeta, e i poeti, com’è noto, ‘sono sempre in cerca di motivazioni razionali per poter credere nell’assurdo’”.
Il trio di Belgrado, di Goran Markovic (traduzione di Enrico Davanzo; Bottega Errante Edizioni), è un divertente e arzigogolato libro che narra la Jugoslavia del 1948, quando Tito rompe i rapporti con Stalin e tutti gli stalinisti in Jugoslavia, veri e presunti, vengono rinchiusi nella prigione “naturale” dell’isola di Goli Otok. I fatti macro-storici si mischiano con le avventure di Lawrence Durrell, l’autore de Il quartetto di Alessandria, che sbarca il lunario improvvisandosi spia per conto dell’ambasciata inglese a Belgrado. Composto come un collage di pagine di diario, verbali di polizia, lettere private, messaggi in codice e articoli di giornale, Il trio di Belgrado è un testo avvincente, dall’inusuale spirito picaresco che svela al lettore aspetti meno comuni di una delle tante realtà della Guerra Fredda e di uno dei più originali scrittori del Novecento.
“I tuoi occhi s’infossano/il pus incolla le palpebre/la tua bocca è spalancata la lingua è secca/acciambellata screpolata/non poso afferrare l’agonia/masticarla farla mia/posso solo respirare profondamente/l’odore dell’urina/della carne putrescente da settimane/ascoltare attento ogni grido/ogni lievissimo rantolo/prima di uscire fuori stordito/dall’innocenza del mondo/in cui moriamo”.
Mentre la neve si scioglie, di Kiril Vasilev (traduzione di Alessandra Bertuccelli, prefazione di Ani Ilkov; Valigie Rosse), è una potente raccolta di liriche dai tratti filosofici-politici di uno dei più interessanti poeti bulgari contemporanei. Analizzando la civiltà attuale, Vasilev mette in luce le fragilità umane e la profonda malinconia che pervade il pensare comune, soffermandosi su aspetti del quotidiano intessuti di fotogrammi che tanto devono alla società rurale balcanica dove la natura è fatta di silenzi e grandi spazi ricchi di significato interiore. Alessandra Bertuccelli ha compiuto un lavoro notevole nel trasporre in italiano la musicalità e la profondità di questi versi. La sua traduzione riesce a preservare la delicatezza del linguaggio originale, permettendo al lettore italiano di accedere alla ricchezza emotiva e simbolica della poesia di Vasilev.
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