Quella di Marta Ravasi è una pittura di contatto. L’intervista
- Postato il 5 settembre 2025
- Arte Contemporanea
- Di Artribune
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Marta Ravasi (Merate, 1987) è una pittrice italiana. Dopo gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Brera Milano, l’Hogeschool Sint Lukas a Bruxelles e il Wimbledon College of Arts a Londra, sta sviluppando la sua pratica pittorica da quasi un decennio. Tra le sue ultime mostre personali si segnalano: Fresca (Galerie Elsa Meunier, Parigi 2025); Solo Geometry (Painters Painting Paintings, 2024); Marta Ravasi (Diez Gallery, Amsterdam 2024); Bucce (Acappella, Napoli 2023). Ha partecipato a numerose mostre collettive, tra le quali: Cold Enough For Snow (Workplace, Londra 2025); Il verso della lumaca (Galleria 1/9, Roma 2025); Clipper Cuts (Brussels 2025); Enosis (ASPARA Studio, Londra 2025); Distance of the rim (NAR, Tokio 2025); Le cose che non sappiamo (Romero Paprocki, Parigi 2025); Premio Cairo (Museo della Permanente, Milano 2024); Familiar (Gauli Zitter, Brussels 2024); Pittura italiana oggi (Triennale Milano 2023). Questo dialogo si sofferma su alcuni aspetti della poetica di Ravasi: le oscillazioni tra astrazione e figurazione, le approssimazioni alla materia pittorica, il sopravvento della pittura, il suo rigenerarsi facendola.

Guardando i tuoi dipinti si vorrebbe subito parlare di astrazione, ma non possiamo assolutamente lasciare da parte le figure. La tua è una pittura non lineare, quasi come se fosse la trasposizione visiva di un contrappunto.
Trovo molto precisa questa tua lettura e brillante la scelta del termine contrappunto, specialmente in relazione alla mia prima produzione in cui ogni opera suggeriva e apriva una strada che sembrava essere indipendente ma allo stesso tempo legata, regolata dal rapporto con le altre. Pur risultando un po’ banale parlare ancora di astrazione e figurazione, alla fine non lo è per niente. I miei quadri sono figurativi, ma anche astratti.
Sono d’accordo, non è scontato soprattutto perché a risaltare è qualcosa come una tua oscillazione.
È una questione di distanze. Quando dipingo la distanza tra me e il quadro è quella del mio braccio, sono in una situazione di intimità con il materiale e questo lo amplifica, prende il sopravvento, ma quella esigenza di avere un’immagine, quell’ancora della figurazione, vale come una sorta di difficoltà che si aggiunge nel lavoro. Per me si tratta allora di fare due passi avanti e tre indietro. Un continuo oscillare come dici tu, perché se definisco troppo l’immagine e la figura diventa predominante il quadro non mi interessa più.
A quel punto, che cosa succede?
Torno indietro, all’astrazione, o meglio: riapro. Questo continuo cambiamento di prospettiva è esattamente ciò che mi permette di andare avanti. Il mio desiderio di fare pittura si alimenta di questa necessità. Con ciò si crea anche una tensione che mi consente di continuare a dipingere lo stesso quadro che, in fin dei conti, vorrei non fosse mai finito.

Anche se poi una conclusione ci sarà. Da dove pensi tragga origine quel tuo altalenare?
Lo scopo del mio gioco, se lo vogliamo chiamare così, è continuare a dipingere. Se l’immagine si definisce troppo ho bisogno di intervenire. Da una parte, ti direi allora che l’origine è nelle approssimazioni: la vicinanza e la lontananza sia dal punto di vista del pittore sia da quello dello spettatore – benché io in quest’ultima posizione volutamente non mi ci metta perché prediligo la mia vicinanza all’opera e faccio di tutto per perdermici dentro. Dall’altra, non possiamo escludere il farsi stesso della pittura.
Di che cosa si tratta?
Mi interessa il momento in cui la pittura stessa prende il sopravvento definendo l’opera. Mi piace pensarla come una composizione di più proporzioni, texture, direzioni che possono improvvisamente palesarsi e modificarsi anche di là dal mio intervento. In parte, questo avviene anche perché uso l’olio.
Una scelta tutt’altro che secondaria. Se potessi usare una formula per descriverla, direi che la tua è una pittura di contatto che ottieni attraverso il tocco della materia pittorica sulla superficie che poi la ospiterà.
Mentre ti ascoltavo pensavo a un mio quadro, Blossom del 2024. Lavorandoci ha preso forma una superficie pittorica che appare sempre fresca, umida, sulla quale le corolle dei fiori di ciliegio valgono come figure che si attaccano a un fondo liquido. Penso allora alla tua descrizione della pittura di contatto associandola immediatamente alla materialità pittorica, imprescindibile per la riuscita delle mie opere.
Consideriamo un momento anche il tempo di elaborazione dell’opera: spesso, si ha anche l’impressione che la tua sia una pittura che emana una certa lentezza, una quiete che rivela però la vitalità che la pervade.
Mi piace che senti questa vitalità, per me è molto importante. Forse, la pittura di contatto ha a che fare molto con quella scelta del materiale che determina poi un tempo per l’opera. La pittura a olio non determina un tempo veloce o lento, ma uno autonomo probabilmente perché rispecchia il mio tempo interiore fatto di pause e di improvvise accelerate, ingestibile e per me ancora del tutto imprevedibile.
Perché?
Principalmente perché quell’esito che descrivevi non corrisponde a me. Ecco, l’aspetto forse più interessante è che se c’è quiete è perché questa è il risultato della mia energia che è bruciata mentre facevo l’opera. Voglio dire, la mia energia mentre dipingo non è quella del quadro, esso sarà il risultato del suo bruciare. Si arriva alla stasi ma la mia attività non è stata in linea con essa. Alla fine, solo alla fine, potrebbe esserci quella pace. Questa è però anche una condizione per me disarmante, perché in fin dei conti non rimane quasi traccia della mia energia. Ma mi piace l’idea che mi stai proponendo, che quella vitalità sia in qualche modo visibile, come fosse qualcosa che alla fine c’è seppure silenziosamente.

Sono convinto appaia, anzitutto per la presenza imprescindibile della materia pittorica nelle tue opere. Ben prima dell’immagine per te è fondamentale che si interponga qualcosa come un filtro, una sorta di sottolineatura concreta per rendere manifesto uno sforzo che reputi necessario.
Quello che chiami sforzo, è la mia necessità di sperimentare, lavorare su nuove possibilità, non perché debba ottenere qualcosa di eclatante, semmai per avere una risposta che non è quella che io prevedevo. Di recente rifletto sull’ultimo strato di lavorazione del quadro. Che è l’ultima scansione della superficie sulla quale intervengo con un pennello scarico e direziono il materiale pittorico facendolo riferire al quadro stesso, alle diagonali, agli angoli, al suo perimetro. E ovviamente anche alle superfici del soggetto, se c’è un soggetto. È un modo che ho di arrivare alla fine ammettendo che poi si possa sempre ripartire daccapo.
È una questione di insistenza.
Penso sia il modo di affrontare più aspetti della pittura. Il fatto che la composizione tocchi quelli della superficie, dell’area del quadro… è il mio modo di insistere. Allo stesso tempo, in fondo, si tratta di riuscire ad affermare umilmente che quello che faccio appartiene naturalmente alla storia della pittura. Questo per me vuol dire anche ottenere una forma di controllo del lavoro che mi permette di riuscire a lasciare andare tutto.
Da qui, forse, trae origine anche la dissipazione materiale che caratterizza le tue opere.
Il mio modo di gestire la materia, soprattutto ultimamente, si definisce alla fine della produzione del quadro. Dopo aver provato più strade e fatto i conti con le più fallimentari, arriva un momento in cui la materia decide da sé come disporsi sulla tela. E quello è spesso il modo giusto in cui devono andare le cose, lo definirei aperto.

Che rapporto hai con le regole per fare pittura?
Esercitarle mi consente di stravolgerle. Per me è un andamento promettente, perché ogni volta che seguo una regola so che torneranno altri momenti in cui stravolgerò di nuovo tutto. In termini pratici per me si tratta di eseguire più esercizi: svolgendoli, alla fine, le regole quasi non ci sono più, ma sono la mia più stabile base.
Ho l’impressione che quegli esercizi facciano capo a un tuo modo particolare di rinnovare la tua pratica pittorica che chiamo ‘procedere per stroncatura’: si tratta del modo in cui lavori sulla relazione tra il soggetto e il quadro, alla fine a essere stroncato non è ciò che dipingi ma il campo in cui poni i soggetti.
Facendo pittura incontro più ostacoli e spesso qualcosa di troppo che è necessario togliere. Io allora intervengo sottraendo strati, cosicché la pittura possa farsi pittura. Ma ascoltandoti stavo anche pensando che, forse, tutto quello che ci stiamo dicendo potrebbe anche non esserci. Forse è proprio in questi termini che intendo la ‘stroncatura’ di cui parli. Il mio dire e architettare a proposito della mia pittura è qualcosa di cui posso benissimo fare a meno.
Eppure, c’è.
Sì, ma nella misura in cui si tratta di un mio ambiziosissimo pensiero del quale potrei sbarazzarmi. Alla fine, però, nella mia pittura tutta quella riflessione ha più forza nel momento in cui si scontra con la povertà di ciò che rappresento e con il modo in cui l’ho fatto. Forse la stroncatura è il fatto stesso che io guardi in un altro modo, che scopra ancora nuove cose. È qualcosa di buono perché determina continui riavvii del mio lavoro, un rigenerarsi.
Davide Dal Sasso
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