Quattro casi di abusi a Latina in quattro luoghi simbolici. Eppure… meglio non approfondire
- Postato il 21 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Graziano Lanzidei*
Chiudere gli occhi è più facile che guardarci dentro. A Latina, negli ultimi due anni, sono venute fuori storie che non si vorrebbero raccontare mai. Storie di adulti che abusano di ragazzini nei luoghi dove ci si aspetterebbe protezione: la scuola, l’ospedale, il gruppo scout e la Chiesa. E non è solo un problema di cronaca, ma di una fiducia che si è spezzata, e potrebbe rischiare di non ricomporsi più.
Alessandro Frateschi, era un professore di religione al Liceo Majorana di Latina. Era un diacono. Aveva lavorato per l’Istituto per il sostentamento del clero. È stato condannato in primo grado a dodici anni per abusi su cinque minori. Le motivazioni lasciano senza fiato: si parla di ragazzi “fragili”, scelti e avvicinati con cura, prima di tradire ogni confine. E anche quando una famiglia ha provato a dire qualcosa, la risposta è stata il vuoto. Due case-famiglia, a Roma e a Latina, hanno ricevuto la segnalazione ma nessuno ha mosso un dito. Un silenzio che racconta la crisi che abbiamo davanti. E la Chiesa? Non basta sospendere, prendere le distanze, dire che “non si sapeva”. Perché se l’abuso accade dentro una relazione religiosa, allora quella ferita riguarda anche il modo in cui si costruisce l’autorità ecclesiastica in una comunità.
Simone Di Pinto, diciannove anni, ex capo scout, assistente educativo in parrocchia a Terracina. Indagato per reati gravissimi: abusi su minori e pedopornografia. Il processo è in corso e va ricordato che fino a condanna definitiva c’è la presunzione di non colpevolezza. Ma qualcosa si è rotto anche lì. Perché se in un contesto che dovrebbe formare i cittadini di domani si scava un pozzo così profondo, allora è un crollo dell’autorità educativa. A fare la differenza, stavolta, sono stati i genitori, la Garante per l’infanzia Monica Sansoni, le famiglie che hanno avuto il coraggio di parlare. E il gruppo scout stesso, che si è costituito parte civile. Un sussulto di dignità. Ma serve sempre un terremoto per muovere le coscienze?
All’Ospedale Santa Maria Goretti di Latina, un’indagine ha portato all’arresto di una caposala e di due persone. Le accuse riguardano la detenzione e la produzione di materiale pedopornografico. Anche in questo caso, come in tutti gli altri, vale il principio di non colpevolezza fino al verdetto. Ma intanto la comunità inizia a chiedersi: c’è un posto che possa davvero dirsi sicuro?
Un’altra inchiesta ha portato alla chiusura delle indagini a carico di un sagrestano della diocesi di Latina, accusato di abusi su una minorenne. La denuncia è partita dalla famiglia della ragazza, e i fatti risalirebbero ad alcuni anni fa, durante una cena parrocchiale. Un episodio che, se confermato, aggiungerebbe un ulteriore tassello a un quadro già drammatico. Anche in questo caso, l’autorità ecclesiastica ha preso provvedimenti interni, allontanando il sagrestano in via precauzionale. La procura ha richiesto il rinvio a giudizio.
Quattro storie. Quattro luoghi simbolici della fiducia tradita: la scuola, l’ospedale, il gruppo scout e la Chiesa. Tutti attraversati dalla stessa ombra. E da una domanda che non ha nulla a che fare con i tribunali: che ne è di quella rete invisibile che dovrebbe tenere insieme un bambino, un genitore, un educatore, un medico, un parroco, una città intera? Perché se il trauma è individuale, il fallimento è collettivo. La risposta non può essere solo repressiva. Non possiamo abbandonarci all’indignazione a posteriori. Serve cultura. Formazione. Vigilanza. Una consapevolezza diffusa: che gli abusi non nascono dal nulla, e non si fermano da soli.
Latina non è un’eccezione. È un esempio di quello che succede quando la fiducia viene affidata alla speranza che “vada tutto bene” o al quieto vivere. Quando le istituzioni preferiscono non approfondire, per evitare scandali. Quando chi dovrebbe intervenire sceglie il silenzio, per non incrinare equilibri interni, gerarchie, reputazioni. Così, la protezione diventa vuota retorica. E chi doveva proteggere, invece, fa del male.
A contrasto, va riconosciuto il ruolo fondamentale della stampa locale, che in questi anni ha seguito i fatti con rigore, coraggio e senza sconti. In particolare, tra gli altri, va segnalato il lavoro del giornalista Marco Cusumano che ha contribuito a tenere alta l’attenzione su casi che troppo spesso rischiano di finire nel cono d’ombra della vergogna e della rimozione. È anche grazie a un’informazione puntuale e responsabile se oggi possiamo nominare con chiarezza ciò che è accaduto – e iniziare a porci le domande giuste.
Forse una domanda dovremmo farcela anche su di noi, su questa ossessione per la ricerca compulsiva dell’identità degli accusati e delle vittime. Ma sapere chi sono non significa sapere cosa è successo. E forse, individuare un “mostro” e una “vittima” serve a rendere il problema eccezionale, anomalo, fuori norma. Come stiamo scoprendo, purtroppo, il problema è sistemico. Invisibile finché qualcuno non parla. E se è vero che la giustizia si esercita alla luce del sole, è anche vero che il diritto delle vittime a non essere riconosciute dovrebbe valere quanto quello della società a sapere. Ma questo, forse, è un altro discorso.
È difficile scrivere queste cose. Ma più male fa far finta di niente. O pensare che il problema riguardi solo “gli altri”. La verità è che finché non ci sarà una cultura della trasparenza, dell’ascolto e della responsabilità condivisa, queste storie rischiano di continuare ad esserci.
*giornalista
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