Polizia penitenziaria disarmata anche moralmente dalla burocrazia: ora sogna la fuga dal Dap
- Postato il 11 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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E’ ormai un dato di fatto: gli appartenenti alle Forze di Polizia che operano nelle strade hanno in dotazione strumenti e protezioni anche legali, mentre gli agenti di Polizia penitenziaria che operano nelle carceri sono disarmati di tutto e pagano in prima persona le conseguenze delle innumerevoli conflittualità-contraddizioni del sistema, comprese quelle intestine all’Amministrazione penitenziaria centrale – il Dap – per l’accaparramento delle poltrone più remunerative.
E’ però il cannibalismo burocratico fatto di ritardi e di disposizioni inattuabili da parte di un centro che non comprende più quello che accade nelle proprie diramazioni (le carceri) ciò che sta disarmando anche moralmente la Polizia penitenziaria, perché gli istituti penitenziari sono oggi un coacervo di traffici (sostanze e telefonini) controllati dalle criminalità, di armi rudimentali, di aggressioni tra le etnie e verso il personale e di gravissime carenze sanitarie (nei confronti di tossicodipendenti, malati cronici e affetti da patologie psichiatriche) che chi dispone di un bagaglio di pochi mesi di formazione (quattro mesi, al momento, per diventare agente), con una carenza media degli organici del 25% in ogni sede, non può né prevenire né contrastare.
Ma la politica e le istituzioni, in generale, del carcere vedono solo il sovraffollamento e i suicidi, che certamente sono un male, ma non il male assoluto di un sistema che non funziona, che non produce maggiore sicurezza per la collettività – semmai esattamente il contrario – e che oggi penalizza, più o meno allo stesso modo, chi nel carcere paga il proprio debito e chi nel carcere lavora.
Il Corpo di Polizia Penitenziaria nasce dalla smilitarizzazione dell’ex Corpo degli Agenti di Custodia di cui alla Legge 15 dicembre 1990, n.395, ma la legge ha miseramente fallito le propria principale finalità, atteso che l’unificazione dell’Amministrazione penitenziaria verso un indirizzo e attività univoci, in tutti i propri innumerevoli profili professionali (oltre 30) e a partire da quello di direttore penitenziario, dopo 35 anni non si è verificata e tuttora convivono all’interno del Dap almeno 5 aree contrattuali distinte, oltre ad innumerevoli contratti di diritto privato.
Sempre in virtù della medesima legge 395/1990, gli appartenenti al Corpo di Polizia penitenziaria dispongono delle qualifiche di agenti ed ufficiali di Polizia Giudiziaria, per le quali dipenderebbero da Prefetti e Questori, e in ragione del Codice della Strada di agenti di Polizia Stradale, ma l’unica e concreta dipendenza funzionale e gerarchica è quella nei confronti dei direttori penitenziari che, pur non appartenendo alle Forze di Polizia con relative qualifiche, dispongono direttamente e in ogni momento dell’impiego dei poliziotti penitenziari.
Si tratta di contraddizioni di particolare peso e che nel tempo hanno determinato esse stesse l’inerzia di un sistema che non si evolve al passo con i tempi (se non attraverso progetti di ampliamento dei posti detentivi che, come sembrerebbe, in assenza di incrementi di organico andranno a moltiplicare i già ingenti carichi di lavoro interni, con turni anche di 12-14 ore consecutive giornaliere, piuttosto che attenuarli).
La Polizia Penitenziaria, che pure rappresenta l’87% dei dipendenti del Dap, non vede minimante riconosciuti il proprio ruolo e le proprie peculiarità di unico Corpo di Polizia dello Stato, che oltre alle attribuzioni tipiche delle Forze di Polizia, oltre ai compiti di sorveglianza e custodia, assolve a funzioni di vera e propria pacificazione sociale nella diretta partecipazione alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti all’interno delle carceri.
In quelle stesse carceri dove stanno crescendo a dismisura nei poliziotti penitenziari la sfiducia, la disaffezione e il fatalismo di chi ritiene che non vi sia più alcun futuro nel proprio lavoro.
Fortemente sintomatica, quindi, la direttiva del Ministro dell’Interno del 17 dicembre 2024 che diventa il manifesto dell’esclusione della Polizia Penitenziaria. Il titolare dell’Interno dà istruzioni operative dettagliate a Prefetti, Capo della Polizia, Comandanti di Carabinieri e Guardia di Finanza, trascurando completamente l’impatto degli arresti sulle competenze della Polizia Penitenziaria e ovviamente sulle carceri; Servizi straordinari interforze “ad alto impatto”, 800 militari dell’Operazione Strade Sicure, “Patti per le Stazioni Sicure”, daspo urbano, ordinanze sindacali coordinate. Tutto pianificato per chi cattura, niente per chi deve custodire, ovvero mantenere vigenti anche in carcere le regole dello Stato e della civile convivenza
Eppure, l’interazione tra Ministero dell’Interno e quello della Giustizia si era sviluppata con la circolare Gabrielli sulle rivolte. Ma evidentemente Piantedosi ha percepito l’attuale inconsistenza del Dap e ha preferito non coinvolgerlo, lasciando la Polizia Penitenziaria nell’Atlantide sommersa di Largo Daga a Roma: da una parte il Viminale che costruisce metodicamente strategie coordinate e operative, dall’altra il Dap e il Ministero della Giustizia che improvvisano continuamente l’emergenza penitenziaria attraverso l’approssimazione burocratica.
Un’approssimazione che i poliziotti penitenziari ascoltano ogni giorno e che li fa sentire sempre più soli nelle avversità, fino al punto di lasciar loro immaginare una diversa collocazione, più idonea e confacente alle proprie attribuzioni e alle proprie esigenze e non più presso un Dap costoso e inutile, che non li merita, non li riconosce e che ormai va lasciato da solo nella proprio decadenza.
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