Né con Sinner, né con i suoi denigratori
- Postato il 28 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Lo scorso venerdì sera il bisturi critico di Maurizio Crozza & brothers ha girato a vuoto, come lo stesso fustigatore genovese delle miserie nazionali – insolitamente imbarazzato – dava a vedere di rendersene conto. Al tempo stesso risultava sconfortante scoprire che il team dei suoi ghost writers, solitamente di precisione chirurgica nel macchiettizzare ipocrisie e cialtronaggini, condivideva un vizio plebeo tipico dell’italica canea: la goduria nel piazzarsi a un tiro di sputo da un connazionale che per meriti propri ha saputo conquistarsi rispetto e ammirazione anche oltre confine. La sagra dell’invidia meschina scatenata alla ricerca di punti deboli per svilire la fama altrui. In questo caso il fenomenale Jannik Sinner, probabilmente uno dei maggiori atleti nella storia italiana, di certo il più grande (per incolmabile distacco a solo 24 anni) in ambito tennistico.
Ma già, il ragazzo poliglotta di Sesto Pusteria (oltre all’italiano, il tedesco e un ottimo inglese, mica il risibile Gramelot alla Dario Fo del rieccolo Matteo Renzi) non padroneggerebbe la nostra parlata; riprova definitiva di un’estraneità allo specifico etnico del Bel Paese. Sebbene la comunicazione dell’alto atesino sia ben migliore dei grugniti gergali di tanta parte dei coetanei; solo segnata anch’essa da cadenze dialettali, ennesimo effetto di un’unificazione nazionale tardiva, in questo caso attorno al toscano. Oggi soppiantato mediaticamente dal romanesco.
Insomma, l’addebito risibile di non essere un accademico della Crusca (e quale sportivo di professione nostro compatriota lo è, dal calcio al ciclismo?). Mentre ben più risolvente a scopo denigratorio è l’altro argomento in campo: la residenza fiscale nel paradiso anti-tasse di Montecarlo. E qui servono a poco le argomentazioni dei difensori “a prescindere”: Sinner vince i suoi premi in tornei all’estero, gravati dalle trattenute in loco sul bottino; il regime erariale del Principato è secondario rispetto alle opportunità di allenamento che mette a disposizione. Per poi arrivare all’inevitabile “così fan tutti”. Gli 8mila italiani che hanno scelto di risiedere nell’apoteosi della speculazione edilizia monegasca; tra cui la pletora di sportivi Mastro don Gesualdo, imboscatori della “roba”, come i colleghi di Sinner Lorenzo Musetti e Matteo Berrettini.
Niente da fare: il comportamento infedele rimane sempre criticabile; riprova di una mentalità regressiva, rispetto alla civiltà democratica moderna, fondata sul principio del “no taxation without representation”. Che può essere virato al “no representation without taxation”, a cui parrebbero ispirarsi i critici del tennista campione, sacerdoti del luogo comune. I Gramellini, i Severgnini, i Cazzullo e magari i Zazzaroni, insieme alle loro testate dedite all’indignazione a tassametro. Pronte a ignorare il contesto in cui si colloca il singolo caso monegasco oggetto di esecrazione: un Paese – il nostro – in cui le tasse le paga solo un 40% di lavoratori dipendenti, oggetto di trattenuta, e in cui un presidente del Consiglio – presunto grande statista – ha subìto la condanna passata in giudicato per frode fiscale. Semmai il dibattito sul nostro vincitore di 4 slams (per ora) è un test importante per capire la mentalità diffusa che giustifica l’evasione; e accantonata solo per scopi polemici.
Questo per arrivare al nocciolo del caso in esame: Jannik Sinner piace anche perché ripropone valori che sembravano perduti: il senso della famiglia, quando le nuove generazioni di sovente reagiscono alla crisi della genitorialità sostituendola col branco anagrafico; il culto del lavoro, dopo anni che piccoli Guy Debords ne avevano annunciato l’estinzione a favore del consumo. Valori antichi, insiti nella personalità del Nostro, come riflesso per la salvezza mentale in un mondo che ha perso la bussola. Per cui tempo e luoghi inducono il giovane Sinner a comprendere più la comunità che non la società. Da qui la critica peregrina di Crozza per aver destinato il ricavato dalla vendita della racchetta d’oro, omaggiata dai ricconi sauditi, non al Sistema Sanitario Nazionale bensì alla struttura dove era nato: l’ospedale di San Candido (Bz). Da qui il mancato richiamo esercitato su di lui da un reperto della Prima Repubblica quale Sergio Mattarella.
Il cortocircuito culturale che spiega i comportamenti di Sinner, su cui dovrebbero esercitarsi i suoi pensosi critici: perché non siamo società e rimaniamo solo comunità locale? Perché dopo quasi due secoli siamo ancora fermi al grido di dolore del Cavour morente: “l’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani”.
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