L’Iran nelle fotografie emotive di Parisa Azadi al Festival Cortona On the Move 

“Per me il concetto di casa era sempre stato astratto, non connesso ad un determinato luogo. Sono nata a Teheran durante la guerra Iran-Iraq, lì ho trascorso la prima infanzia, per poi emigrare, a 8 anni, in Canada”, afferma la fotoreporter iraniano-canadese Parisa Azadi (Teheran 1986, attualmente vive e lavora a Dubai) autrice del progetto Ordinary Grief, esposto per la prima volta in Italia, a Palazzo Baldelli a Cortona, nell’ambito di Come together, la 15.ma edizione del festival internazionale di fotografia Cortona On the Move, diretto da Veronica Nicolardi ,con Paolo Woods alla direzione artistica e il collettivo Kublaiklan alla curatela.  

Parisa Azadi: la fotografia come mezzo per liberarsi dall’oppressione 

In Canada mi sono dovuta confrontare con varie questioni, inclusa l’islamofobia che ha lasciato in me un senso di vergogna e di non appartenenza che mi sono portata dietro nella mia vita adulta”. La fotografia è per Azadi (i suoi servizi fotografici sono stati pubblicati su testate quali The New York Times, The Guardian, Vogue) il medium adatto per liberarsi da quell’oppressione che aveva condizionato la sua giovinezza. “Volevo riappropriarmi della mia identità e della mia storia e questo mi ha portata a ritornare in Iran. Così è iniziato il progetto Ordinary Grief”.  

L’importanza della comunità nel progetto di Parisa Azadi 

Come pagine di un diario intimo, i suoi testi accompagnano le immagini fotografiche che ha scattato in Iran tra il 2017 e il 2022. Sia nella capitale che in giro per il paese, in uno scenario che varia dal paesaggio lussureggiante al deserto, dal mare alle montagne, passando per la Chalus Road (nota anche come Road 59) che collega le città di Karaj e Teheran a Chalus, sulle coste del Mar Caspio. “Non avevo amici o parenti stretti nel paese, la strada è stata il mio punto di partenza. Uscivo tutti i giorni con la macchina fotografica scontrandomi con la vita. Mi sentivo vulnerabile, ho dovuto imparare nuovamente la mia madrelingua, il persiano, perché avevo smesso di parlarlo da due decenni. Il mio vocabolario era limitato, pronunciavo male le parole con un accento americano. Ma proprio quel mio accento strano è stato il punto di forza nell’approcciare le persone. Ero tornata nel paese proprio nel momento in cui la gente voleva disperatamente lasciarlo e ciò destava curiosità. Mi chiedevano il motivo che mi aveva spinto a tornare. Così ho iniziato a incontrare le persone che sono nelle mie fotografie, la comunità che mi circondava. Con il tempo le emozioni sono diventate il punto centrale del lavoro, sentimenti di dolore e gioia che esploravo attraverso il linguaggio del corpo, la presenza della gente nello spazio esterno o in quello interno, dietro una finestra”

Parisa Azadi a Corton on the Move, luglio 2025 Ph Manuela De Leonardis
Parisa Azadi a Corton on the Move, luglio 2025 Ph Manuela De Leonardis

Intervista alla fotografa Parisa Azadi 

In Ordinary Grief la tua sfida maggiore sembra essere quella di cercare di descrivere l’aspetto invisibile delle emozioni attraverso il mezzo fotografico. È così? 
L’Iran è un paese difficile per lavorare come fotogiornalista, non c’è libertà di stampa né pass per i giornalisti. C’è voluta la mia disperazione e anche la mia passione per riconnettermi con quel luogo che avevo lasciato molti anni prima. A rendermi coraggiosa, ma anche vulnerabile, è stata la macchina fotografica, mi ha dato il motivo per approcciare sconosciuti e parlare con loro. Non so se ci sarei riuscita senza. Con la massima onestà devo anche dire che la gente è stata tutto per me, soprattutto perché ero una donna single che tornava da sola nel paese, senza conoscere nessuno. Le persone che ho incontrato hanno capito esattamente quello che stavo facendo e mi hanno aperto le porte, permettendomi di fotografarle in un lungo periodo di tempo. Questo progetto nasce da una collaborazione con loro. Non sarei mai stata in grado di farlo da sola, senza il loro supporto.  

Sei tornata in Iran nel 2017 e poi? 
Sono tornata nel 2017 solo per dare uno sguardo. Quella prima volta ero con mio padre, perché in Iran in quanto donna avevo bisogno della firma di mio padre sul mio documento d’identità. Ma dopo aver trascorso un mese a Teheran ho capito che avrei potuto farcela da sola, così sono tornata all’inizio del 2018 con tutte le mie cose e sono rimasta per sei anni, navigando in questo nuovo spazio culturale e sociale per conto mio.  

Come si è sviluppato il progetto Ordinary Grief? 
Si è sviluppato in maniera organica. Non avrei mai pensato di realizzare una storia sul mio ritorno in Iran, ma mi sono resa conto che non potevo focalizzarmi su altre storie senza passare per la mia che era stata un’esperienza molto importante. Attraverso il mio sguardo ho raccolto le storie di tutte quelle persone che mi hanno mostrato quello che stava succedendo nel paese. Abbiamo condiviso storie e momenti privati. Come quello di quella coppia che si abbraccia per le strade di Teheran. Avevo conosciuto Hossain e Negar, la donna con il velo rosso, una settimana prima e loro mi hanno permesso di fotografarli durante il loro appuntamento. Momenti come questo erano importanti per me, perché volevo sapere cosa si prova in Iran quando ci si incontra per un appuntamento amoroso, quando si è innamorati tra le tante regole e pressioni quotidiane.  

Tra le foto esposte ce n’è anche una di te bambina che indossi l’uniforme della scuola, nel 1993, a Teheran. Quali sono i tuoi ricordi di allora? 
Devo dire che benché fossi piccola, avevo ricordi molto vividi forse perché quando i bambini sono sottoposti a stress tendono a trattenere più informazioni, conservando la memoria. Sono cresciuta con la consapevolezza del tipo di società in cui vivevo, con la sua vita interna ed esterna, imparando a come proteggermi negli spazi pubblici, sapere cosa dire e cosa non dire. La mia esperienza scolastica era come di una scuola militare. Eravamo obbligate a indossare un’uniforme, il “maghnaeh” una specie di mantellina con cappuccio che era fuori misura. Dovevamo muoverci in una certa maniera, non potevamo avere lo smalto alle unghie e il nostro zaino veniva ispezionato tutti i giorni per essere certi che non portassimo “junk food” come patatine e gomme da masticare. Sembra ridicolo ma questa era la mia realtà. Da ragazzina quando camminavo per strada non mi sentivo libera. Questi sentimenti sono rimasti dentro di me. Si impara fin da piccoli a provare il senso di paura o di controllo. 

Oggi, invece, i ragazzini e le ragazzine iraniane sono diversi? 
Sì. Per esempio quando ho fotografato le ragazzine sulla spiaggia pubblica non riuscivo quasi a credere che indossassero il costume da bagno. Una cosa del genere sarebbe stata inimmaginabile quando ero piccola. Al giorno d’oggi le ragazzine indossano lo stesso tipo di uniforme che indossavo io, ma sono molto più colorate, rosa, viola. Ai miei tempi erano solo scure, blu marino, larghe e sformate. Oggi l’hijab può scivolare sulle spalle e i genitori chiudono un occhio. Ragazze e ragazzi non si devono confrontare con il trauma che hanno vissuto quelli della mia generazione.  

Nelle tue foto esprimi la dicotomia tra vita pubblica e vita privata… 
Nelle foto che ho scattato in giro per il paese, dalle grandi città ai villaggi, si possono vedere persone che escono di casa, vanno nei parchi, fanno campeggio alla maniera occidentale, portano il cane a spasso come Roqayegh con i suoi due pastori tedeschi in un parco a Teheran. Un gesto con cui lei sfida il divieto di portare a spasso i cani, perché in Iran si può finire in prigione per questo, oppure i cani possono essere portati via. Possedere animali domestici è fortemente stigmatizzato dal regime. Quanto all’intimità delle mura domestiche, ad esempio ho fotografato Nesa e Yasaman nel 2020, in piena pandemia da covid-19. Sono colte nei piccoli gesti quotidiani in cui si riappropriano della loro vita. Osservano il volto riflesso nello specchio, canticchiano vecchie canzoni d’amore, guardano fuori dalla finestra, ridono dicendo le barzellette. Un momento sospeso in cui sia il passato che il futuro, con le sue prospettive di vita migliore, sembrano lontanissimi.  

In mostra è proiettato anche il cortometraggio “Yadegari”, che hai codiretto insieme al filmmaker e sound artist José Bautista. In che modo questo lavoro si discosta dal ritmo narrativo delle fotografie? 
Non avrei mai pensato di fare un video documentario, ma come in tutto il progetto Ordinary Grief è avvenuto in maniera organica. È iniziato dalle conversazioni che avevo con i miei amici, cercando di capire cosa stesse succedendo in Iran, tra il 2022 e il 2024, con il movimento Women, Life Freedom di cui erano testimoni. Non potendo tornare in Iran, perché per il mio lavoro di fotogiornalista temevo le conseguenze, mi connettevo online con loro, ci scambiavamo messaggi su WhatsApp. La gente mi descriveva quello che succedeva intorno a sé, riprendendo con il cellulare i video delle proteste, registrando suoni. Questa conversazione frammentaria è diventata una sorta di archivio vivente. Ho trascorso mesi interi raccogliendo ossessivamente materiale, selezionando fotogrammi da centinaia di video registrati dai testimoni e fotografando con la fotocamera istantanea lo schermo del mio computer. Il risultato è fatto di dati fluttuanti che sono diventati un’evidenza fotografica. Ogni frammento di quel flusso continuo è diventato un documento, un atto di resistenza.  

Manuela De Leonardis 

Libri consigliati:  

(Grazie all’affiliazione Amazon riconosce una piccola percentuale ad Artribune sui vostri acquisti)   

L’articolo "L’Iran nelle fotografie emotive di Parisa Azadi al Festival Cortona On the Move " è apparso per la prima volta su Artribune®.

Autore
Artribune

Potrebbero anche piacerti