Le origini della guerra sono diverse: insistendo sulla responsabilità personale, la violenza sparirebbe
- Postato il 30 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Giorgio Boratto
Le varie divergenti opinioni circa le origini della guerra sono riconducibili a diverse posizioni di fondo. Da un lato, le teorie improntate alla psicoanalisi, che incardinano la natura umana alla perdita infantile degli oggetti d’amore e al trauma della nascita; e le teorie fondate sulla biologia animale (meccanismi innati di combattimento o fuga; il gene che lotta per diventare dominante). Dall’altro lato, abbiamo le teorie che considerano la guerra un prodotto della struttura interna dei gruppi, dei loro sistemi di credenze, delle loro pretese territoriali, delle loro esigenze riproduttive esogamiche e della psiche collettiva della folla.
In tutti i casi, sia la guerra considerata una pulsione umana o un bisogno della società, si rende necessaria l’immagine di un nemico. La guerra, scrive Hobbes, è una situazione in cui ogni uomo è nemico a ogni altro uomo, e Clausewitz ripete che occorre “avere sempre in mente il nemico”. L’idea di Altro o di alterità che domina oggi il discorso filosofico su genere, razza ed ecologia è troppo astratta per scatenare “i cani della guerra”. Provate a immaginare una guerra senza prefigurarvi un nemico: è impossibile.
Ma forse la guerra, sempre latente nell’ambiente umano, potrebbe essere inserita nell’epidemiologia: si diffonde come un contagio; come un incendio nella foresta. Un’altra analogia potrebbe essere l’appetito del libero mercato capitalistico il quale finisce per agire come una forza della Natura; un modello di comportamento trasmesso lungo le ere da quando da preda diventò a sua volta un abile predatore a caccia di nemici.
Così i filosofi ci hanno raccontato quanto la guerra sia legata alla natura umana. Ma quasi tutte le interpretazioni trattano la guerra a prescindere dai miti, a prescindere dagli Dei, come se miti e Dei fossero morti e sepolti. Eppure, in quale altra esperienza umana, se non facendo la guerra, ci ritroviamo trasportati in una condizione mitica, con gli Dei ben vivi e reali?
L’inumanità umana mostra gli Dei in azione, non tutti gli Dei ma sicuramente uno, il dio della guerra, in particolare Ares per i greci e Marte per i romani, continuano a rivelarsi lungo tutto il corso della storia, provocando battaglie, cavando sangue, bruciando la terra. Ecco i miti sono sempre il nostro riferimento; sono il paradigma delle nostre azioni: nessuna forma di pensiero o di azione può escludere il mito. Se ne rese conto Sigmund Freud e anche Friedrich Nietzsche che con La nascita della tragedia prende la cultura greca e i suoi miti come aspetti prodromici che permettono all’uomo non solo di conservare se stesso, ma di raggiungere l’autosuperamento. Non è un caso che Sigmund Freud poi abbia preso dal mito di Edipo, la sua simbologia, per illustrare le passioni e i sentimenti umani: un percorso dello sviluppo dall’infanzia allo stato adulto.
Un’altra causa è la perseveranza nell’errore che secondo Barbara Tuchman conduce le nazioni e i loro capi verso il baratro, in una marcia della follia, come ha intitolato il suo studio sulle guerre, da quella di Troia in poi. All’origine di tali catastrofiche scelte, Barbara Tuchman individua la mentalità poco immaginativa della vita politica e burocratica, che mortifica l’intelletto efficace privilegiando l’esecuzione meccanica degli ordini.
Eppure ci sarebbe un altro modo per sconfiggere la violenza e la guerra: fare in maniera che ognuno acquisisca la responsabilità personale di ogni sua azione. Non ci sarebbe esercito che tenga se ognuno si rifiutasse di sparare e di aggredire l’altro. Per questo resiste la speranza che i pacifisti aumentino e diventino una vera maggioranza con il riconoscimento che i miti sono la normazione dell’irragionevole.
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