L’arte? È un innesco. Una conversazione con l’artista Matt Keegan 

Il lavoro di Matt Keegan (Manhasset, 1976) si articola tramite media eterogenei — dalla scultura alla fotografia, dal video all’editoria — e indaga il linguaggio come dispositivo culturale capace di modellare la realtà e organizzare il pensiero. Attraverso gesti di disattivazione e riconfigurazione di materiali pedagogici e visivi, l’artista apre spazi critici che invitano a ripensare i meccanismi con cui il sapere viene prodotto, trasmesso e legittimato. Centrale nella sua pratica è l’utilizzo di archivi personali e dell’esperienza familiare. Questa scelta non è da intendersi come riferimento biografico o nostalgico, ma come lente attraverso cui interpretare fenomeni culturali e sociali. Si tratta infatti di una dimensione affettiva e relazionale che contribuisce a mettere in discussione il baricentro del sapere costituito, passando da un modello gerarchico e codificato ad uno radicato nell’esperienza e nel dialogo. Parallelamente alla sua produzione visiva, Keegan ha sviluppato una pratica editoriale sperimentale volta a generare spazi di ricerca “altri”, in grado di attivare forme collaborative e non-lineari di produzione culturale. 

Matt Keegan, Realia, Installation View. Courtesy of Magenta Plains
Matt Keegan, Realia, Installation View. Courtesy of Magenta Plains

Intervista a Matt Keegan 

Il tuo lavoro attraversa una molteplicità di linguaggi visivi e testuali, ma al centro sembra esserci la riflessione sul linguaggio stesso — non soltanto come strumento comunicativo, ma come costruzione sociale, dispositivo di potere e campo di ambiguità. Come concepisci oggi il linguaggio nella tua pratica artistica, e che ruolo gioca nella tua riflessione sull’identità e sulla trasmissione culturale? 
All’inizio della mia pratica mi sono concentrato sull’inglese vernacolare americano attraverso opere testuali – stampe, disegni e sculture –; ero attratto da espressioni con significati stratificati o ambigui. Con il tempo, ho iniziato a sentire i limiti del testo e ho cominciato ad indagare forme e immagini quali sostituti del linguaggio – più aperti, interpretativi e associativi. Ho realizzato opere in acciaio, forme che ricordano i test di Rorschach, per andare oltre la rigidità del significato. Ad un certo punto, sono tornato ad una collezione di immagini che mia madre aveva assemblato a mano, ritagliate da riviste e cataloghi per creare delle flashcard per l’apprendimento dell’inglese. Quel materiale mi ha fatto riflettere sul linguaggio come qualcosa di aperto, plasmato dalla traduzione, dalla traduzione errata, dal contesto culturale e dai vuoti di conoscenza.  

Mi interessano molto le flashcard ESL realizzate da tua madre, che ricorrono come oggetti-simbolo in diversi tuoi lavori. Concepite come strumenti didattici per insegnare l’inglese a parlanti non nativi, queste schede — composte da immagini ritagliate da riviste e pubblicità domestiche degli anni Novanta e Duemila — diventano nelle tue opere qualcosa di più: frammenti di un archivio familiare, veicoli di memoria e tracce di un capitale culturale che si tramanda. Il loro valore pedagogico si trasforma in un codice visivo e simbolico complesso, che mette in luce le dinamiche di produzione, trasmissione ed esposizione del sapere. Cosa ti ha avvicinato a questi oggetti? 
Oggi per me è impossibile parlare di linguaggio senza considerare il contesto politico in cui viviamo. Il linguaggio sembra essere sempre più distorto e manipolato, intrappolato in sistemi di potere ed oppressione. È anche per questo che mi ha attirato quell’atto così strano, quasi contraddittorio, di usare immagini commerciali per insegnare l’inglese nelle comunità di immigrati. Le flashcard catturano un’epoca precisa, un momento della cultura americana e un ideale di consumo della classe media e ciò che più mi interessa è l’ampia rete di significati che evoca. Sono prodotti molto diffusi – con un’impronta storica e uno status ben definito – che mia madre ha riutilizzato come strumenti pedagogici. Nel suo caso, insegnava a persone adulte, improvvisando con ciò che aveva a disposizione, un gesto dettato dalla necessità e dalla creatività. Come artista, le vedo con uno sguardo diverso – informato dall’arte concettuale e dalla Pictures Generation. Mia madre non ha mai pensato che ciò che faceva fosse arte, ma è evidente che prendeva decisioni estetiche consapevoli. Mi interessa la dimensione generativa di quel processo. Parla di come cerchiamo di dare senso al mondo attraverso le immagini, delle conoscenze ereditate e dell’infinita circolazione dei media.

Matt Keegan, Generation, 2016. Courtesy of the artist and Magenta Plains.
Matt Keegan, Generation, 2016. Courtesy of the artist and Magenta Plains.

Nella tua recente mostra Realia da Magenta Plains hai presentato lavori visivi di diverso tipo, tra cui alcune opere che utilizzano l’archivio delle flashcard ESL. Nelle composizioni emerge una sintassi visiva e materiale, in cui la dimensione “funzionale” di partenza assume una grammatica formale e concettuale libera ed ambigua: le parole diventano oggetti, le immagini frasi visive, i materiali quotidiani entrano nel campo della scultura come elementi linguisticamente attivi. Possiamo vedere questo gesto come una forma di disattivazione del dispositivo linguistico/pedagogico capace di renderlo nuovamente generativo? 
Con Realia, credo ci sia stata un’apertura nel mio lavoro. Dopo quasi vent’anni di mostre, mi sento più a mio agio nel lasciare che l’opera resti aperta all’interpretazione. Cerco di realizzare lavori che funzionino come inneschi, che invitino chi guarda a nominare, interpretare o entrare in relazione con le strutture sintattiche – simili a frasi – che costruisco. Dietro questi assemblaggi c’è una logica, anche se non viene necessariamente esplicitata in un comunicato stampa o in una spiegazione.  

In un contesto come quello americano contemporaneo, in cui le pratiche educative, culturali e identitarie sono fortemente politicizzate e normate, questa apertura all’ambiguità può generare in chi osserva reazioni e riflessioni molto diverse. Che tipo di relazione immagini — o auspichi — tra il tuo lavoro e chi lo osserva? 
Penso sempre al pubblico mentre lavoro, è la mia priorità. So che una struttura costruita come una frase può generare molteplici letture, alcune anche in contrasto con la mia intenzione originaria e accolgo con favore questa possibilità. Per questa mostra, desideravo che ogni elemento – i dipinti, le flashcard per l’insegnamento dell’inglese come seconda lingua, la scultura da tavolo – offrisse una via d’accesso. Sono forme familiari, con cui chi guarda può entrare in dialogo. In definitiva, vedo questa relazione come qualcosa che si completa con il pubblico. Voglio creare opere che invitino alla riflessione, non che dipendano da me per essere definite. 

Matt Keegan, Green to Red, 2025. Courtesy of Magenta Plains
Matt Keegan, Green to Red, 2025. Courtesy of Magenta Plains

Nei tuoi progetti video ed installativi, la famiglia non è mai solo un tema autobiografico o nostalgico, si configura piuttosto come una vera e propria struttura operativa: un metodo di lavoro, una lente attraverso cui leggere fenomeni culturali, sociali, urbani. Penso, ad esempio, a what was & what is (2019), in cui il dialogo con tuo padre intreccia storia personale e trasformazioni della città di New York. In che modo questa grammatica affettiva e relazionale, contribuisce alla riflessione più ampia sulla trasmissione del sapere, sull’autorità culturale e sul modo in cui si costruiscono — e si possono riscrivere — le narrazioni collettive?  
Apprezzo che tu abbia colto questa cosa. Anche se what was & what is coinvolge mio padre, non si tratta di lui in quanto padre, ma come figura la cui vita è legata direttamente al Queens, il luogo in cui è stata installata l’opera. Volevo affiancare questa sua traiettoria a una riflessione sul tempo, in particolare attraverso una citazione che correva lungo il bordo superiore della scultura: “Per molto tempo, questo quartiere è stato definito da ciò che sarà, e ora penso sia definito da ciò che è.” Questa frase è tratta da un’intervista del New York Times a un costruttore di Court Square —non dice nulla, eppure cattura perfettamente come la speculazione influenzi il valore percepito di un luogo. Così mi sono chiesto: e se il valore non fosse ancorato a proiezioni economiche, ma all’esperienza vissuta? Ho affiancato alla scultura un dialogo articolato in tre momenti pubblici con mio padre che, ad 82 anni, rappresentava una sorta di cronologia vivente della città. Sono diventato un corrispondente, che offriva al pubblico la possibilità di rivisitare luoghi familiari attraverso una fonte primaria vivente. Mio padre è un narratore naturale — divertente, spontaneo, imprevedibile. Quella vulnerabilità, quell’improvvisazione, sono diventate parte integrante dell’opera. Il progetto riguarda il luogo, la memoria e l’autorialità. Pone delle domande: cos’è questo quartiere? Chi lo vive? Chi lo definisce? Cosa ne pensa la comunità del futuro che si prospetta? 

Anche in Generation (2016), coinvolgi i tuoi genitori e la tua famiglia diretta per mettere in circolo parole, memorie, gesti educativi. In queste opere, soggettività familiari — genitori, insegnanti, bambini — emergono come interlocutori attivi, portatori di un sapere non accademico ma profondamente situato.  
Generation, diversamente da what was & what is è più incentrato sul sapere ereditato. Mi sono chiesto: la famiglia è una sorta di dizionario? Il vocabolario che ereditiamo — riferimenti culturali, inflessioni regionali, valori — plasma il nostro modo di comprendere il mondo. Un critico del New York Times ha descritto la mia famiglia come una “una classica famiglia newyorkese, con idee forti e ben definite”, e in effetti è così. Anche se resistiamo, rimaniamo in dialogo con ciò che abbiamo ereditato linguisticamente, emotivamente, culturalmente. Ho chiesto alla mia famiglia di definire ciascuno una selezione di 19 parole. Attraverso questa scelta, ho voluto esplorare come si forma il senso del sé, dal genere alla cittadinanza, da come si costruisce l’idea di casa fino a concetti legati all’immaginazione e all’emotività. Mi sono concentrato su parole che attivassero diverse sfaccettature della soggettività. Ho richiesto anche di attribuire a ciascun concetto una forma, un colore, un peso, un movimento o una staticità, generando delle animazioni correlate, nel tentativo di visualizzare queste idee. 

Matt Keegan, AMERICAMERICA excerpt #1 and #2, Collection of Solomon R. Guggenheim Museum, New York Purchased with funds contributed by the Young Collectors Council, 2009
Matt Keegan, AMERICAMERICA excerpt #1 and #2, Collection of Solomon R. Guggenheim Museum, New York Purchased with funds contributed by the Young Collectors Council, 2009

Parallelamente alla tua ricerca visiva, hai sviluppato nel tempo una pratica editoriale articolata, che si è concretizzata in progetti come North Drive Press (2004-2010) e AMERICAMERICA (1986-2008). La prima, ha funzionato per diversi anni come piattaforma indipendente e orizzontale per interviste tra artisti e produzioni al di fuori dei circuiti tradizionali di mediazione. Che ruolo ha per te oggi la creazione di queste piattaforme editoriali e discorsive? 
Aggiungo solo che ci sono altre due pubblicazioni. Dopo North Drive Press, ho realizzato == (Equals), un progetto in tre numeri che ne è stato la naturale prosecuzione. Poi, nel 2020, ho pubblicato un libro intitolato 1996. Ho fondato North Drive Press perché volevo riflettere quell’energia dialogica dell’ambiente accademico, commissionando interviste tra artisti e producendo multipli d’artista, il tutto in un’edizione limitata di 500 copie. North Drive Press è stato co-creato con diverse persone. Ho iniziato a 27 anni, è stato un modo per diventare artista, per affrontare quegli anni iniziali in cui cercavamo di capire cosa stavamo facendo e perché. Il progetto ha favorito uno scambio tra pari e un dialogo intergenerazionale, in un momento in cui molti dei collaboratori non avevano ancora accesso a piattaforme consolidate. Ogni numero veniva assemblato nel mio studio, insieme ai miei collaboratori e ad alcuni degli artisti coinvolti. Con l’evolversi della mia pratica, anche NDP è cambiato. Equals si è spostato verso la scrittura commissionata — artisti che scrivevano su altri artisti — oltre a interviste e multipli. Non è stato un progetto altrettanto riuscito, ma contiene contributi di cui sono orgoglioso. AMERICAMERICA e 1996 differiscono per formato, ma condividono una preoccupazione comune: come costruire un archivio, come un’opera possa essere collettivamente autoriale, e come quell’archivio possa funzionare come ritratto generazionale o intergenerazionale.  

AMERICAMERICA, pubblicata con Printed Matter, riflette sulla costruzione dell’identità americana attraverso un montaggio di immagini, documenti, viaggi e memorie, mettendo in dialogo rappresentazioni ufficiali e discorsi sommersi. Cosa vuoi dirmi sul progetto? 
AMERICAMERICA si concentrava sul periodo che va dalla fine della presidenza di Ronald Reagan fino alla fine del mandato di George W. Bush, mentre 1996 era incentrato sulla rielezione di Clinton e sulla svolta a destra del Partito Democratico durante la sua amministrazione. AMERICAMERICA includeva interviste con artisti diplomatisi intorno al 1986 accostati a interviste con artisti nati in quell’anno, che si stavano laureando poco prima dell’elezione di Obama. 1996 seguiva la stessa struttura: artisti diplomati attorno al 1996 affiancati da quelli nati in quell’anno, la cui prima elezione da elettori ha coinciso con l’ascesa di Trump. Anche se non sono particolarmente attratto dalla politica elettorale o dal sistema bipartitico statunitense, gli anni elettorali si sono rivelati utili come marcatori temporali—uno strumento per prendere il “polso culturale” in termini di attivismo, politiche e pratiche artistiche. Non ho intenzione di tornare a progetti come North Drive Press o Equals — erano estremamente impegnativi dal punto di vista produttivo. Però mi interessa continuare a realizzare libri d’artista che funzionino come contenitori di storia orale, capaci di mappare periodi specifici dell’evoluzione di questo paese. Mi appassiona la fase di ricerca, di commissione e di editing. Sono ancora nelle primissime fasi di un nuovo libro che si concentrerà sul periodo 2008–2012, da mettere in dialogo con il 2028–2032, con l’idea di pubblicarlo proprio in quel secondo intervallo. I salvataggi bancari, la sentenza Citizens United e Occupy Wall Street sono elementi fondamentali per comprendere questo momento presente e ciò che potrebbe accadere nei prossimi quattro anni in questo Paese. 

Giulia Mariachiara Galiano 
 
Libri consigliati: 

(Grazie all’affiliazione Amazon riconosce una piccola percentuale ad Artribune sui vostri acquisti) 

L’articolo "L’arte? È un innesco. Una conversazione con l’artista Matt Keegan " è apparso per la prima volta su Artribune®.

Autore
Artribune

Potrebbero anche piacerti