La morte non è più un destino per tutti ma un privilegio per pochi: qualcuno diventa un ricordo, altri un numero
- Postato il 5 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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La morte non è mai coerente, per nessuno. Non mi riferisco al dolore privato, che è sempre individuale e inestimabile, ma al suo riflesso nella cultura, ciò che crea una storia comune. La morte, in altre parole, come fatto sociale.
Quando Giorgio Armani muore, la notizia non è semplicemente riportata, è esaltata, ritualizzata, istituzionalizzata. I necrologi si trasformano in epiche, le foto diventano icone. I telegiornali aprono speciali sulla sua vita, un’epopea del genio italiano. La sua morte non è una morte, ma una consacrazione, un’apoteosi mediatica che rende eterno il suo mito. È il teatro della memoria occidentale: un uomo giustamente ammirato diventa una leggenda. È una morte che è una di noi, una morte che può essere raccontata su tutti i quotidiani, con articoli infiniti e infiniti particolari.
Diciottomila bambini che muoiono a Gaza, d’altra parte, non ricevono quello spazio, non viene concessa loro quella dignità narrativa. Neanche un piccolo particolare per raccontare quel genocidio. Anche mentre piangiamo un Giorgio, cancelliamo Seraj Ayad, Mohammed, Hussein Yousef, Mousa, Dunia. Non che i loro nomi diventino un coro, ma un sussurro perduto. Non hanno un evento conclusivo, hanno un’abitudine conclusiva. Si insinua nelle notizie come una cifra che risuona freddamente nei bollettini delle agenzie che da qualche parte, sono la vittima, o il danno collaterale, o il civile coinvolto. L’eufemismo è uno scudo: non vediamo i corpi, non ascoltiamo le storie, non documentiamo i sogni infranti. Non muoiono per diventare un ricordo; muoiono per essere un numero.
Stiamo osservando due forme di lutto, completamente in contrasto: una che è ritualizzata, una che è estraniata. La prima è raccontata, e la seconda rimane non detta. È qui che la nostra ipocrisia è grande, i nostri modi non detti di sentirci superiori agli altri, che, nella nostra immaginazione, non possono sapere come sentire. Alcune vite, ci ha insegnato la filosofa Judith Butler, sono intese come più “piangibili” di altre. Il sociologo Zygmunt Bauman potrebbe averle chiamate “vite di scarto”, vite la cui perdita non interrompe il nostro quotidiano, non forza le nostre emozioni fuori dalla loro zona di comfort. Gaza è l’apogeo della logica: vite che non equivalgono a vite, morti che non contano tanto, che non sono condotte sullo stesso palcoscenico.
La morte del “Maestro” crea una storia ordinata; ha un protagonista e una trama di trionfo e una fine che grida di essere narrata. Ci rassicura. Invece ciò che causa la morte di Dunia, di Mousa, è uno strappo nel tessuto della civiltà. È una storia insopportabile perché, possiamo dirlo, è troppo vicina al crimine per essere inghiottita nella storia. Quindi preferiamo non guardare. Scateniamo forme altamente efficaci di distanziamento, a partire dalla depersonalizzazione. “Diciottomila” è un numero, non diciottomila volti, non diciottomila futuri che non sono mai nati.
Hannah Arendt ci ricorda che il male è così frequentemente banale: non è l’odio mostruoso, scrive, che dovrebbe terrorizzarci, ma il meccanismo della consegna quotidiana degli uomini a diventare numeri, della singolarità cancellata nell’anonimato. Questo accade oggi. Il flusso costante di immagini e numeri ha un effetto anestetizzante, e l’orrore ripetuto inizia a sembrare un fenomeno normale. La nostra empatia, come una merce limitata, è riversata su ciò che troviamo più vicino, più “nostro”.
C’è una soglia ancora tra il lutto con cui possiamo sederci e quello che non vogliamo. Da un lato, la morte che appartiene al nostro orizzonte culturale e simbolico. Dall’altro, quella che ci critica. Il divario tra la celebrazione di una vita e il silenzio su migliaia di altre è un chiaro riflesso dell’abisso che si chiama coscienza selettiva.
Ma poiché la morte è quella condizione che veramente ci lega, non dovremmo essere così distanti nella sua rappresentazione. I nomi dei bambini uccisi dovremmo conoscerli, come conosciamo quello di Armani. Forse l’eleganza oggi non si trova nelle linee perfette di un vestito, ma nel coraggio di attaccare umanità e un nome a coloro che sono stati considerati invisibili. Nel ricordare che dietro un numero c’è una risata interrotta e sogni distrutti. Perché la morte non è più un destino universale, se mai lo è stata. Si trasforma in un privilegio per alcuni.
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