Torre Mondovì: così posti apparentemente piccoli diventano immensi

  • Postato il 6 settembre 2025
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Il centro può diventare periferia e i margini diventare il centro, come certi posti del globo di per sé lontani da tutto, ma nei quali si sono svolti fatti o hanno vissuto donne o uomini che hanno segnato la storia, ad esempio la stazioncina di Astàpovo, dove andò a morire Tolstoj. Lo pensava Giordano Bruno, proclamando (intuitivamente, non certo con i calcoli matematici a lui disponibili allora) la teoria eliocentrica copernicana a discapito di quella tolemaica, ponendo la terra non più al centro dell’universo ma alla periferia del cosmo. Un bell’esercizio di umiltà e relativismo, per il genere umano.

Mi è tornato in mente leggendo Torre Mondovì. Un piccolo paese, tante storie dell’amico Pier Carlo Ansaldi, raccolta di racconti su un paesino del Monregalese che anche per me, dal punto di vista formativo, è stato al centro di tutto grazie a un sacerdote “di frontiera”, uno che dialogò anche con Don Milani e che spiegò il mondo a me, arrivato poco più che adolescente da un liceo torinese.

Si chiamava don Nino Salzotti, e Pier Carlo Ansaldi, nato a Torre e qui per dieci anni assessore e vicesindaco, l’ha conosciuto e ne parla nel suo libro, insieme con altri uomini, donne e animali che lì sono vissuti e si sono fatti conoscere e amare: “Papalin” scappato dal fronte austro-ungarico, il partigiano Umberto Mellino, ucciso dai nazifascisti, gli ultimi lupi nei boschi e il manoscritto dello zio, Aldo Ansaldi. Pier Carlo Ansaldi parla del dialetto, che è “lingua madre”, per tutti noi, da qualunque parte del mondo veniamo: sono i primi suoni che abbiamo sentito nella nostra esistenza, probabilmente fin da quando eravamo nel ventre materno. “Questo libro racconta quello che siamo stati – scrive Pier Carlo – impedendo che allo spopolamento dei paesi segua quello svuotamento della memoria e delle parole”.

Ho letto Torre Mondovì. Un piccolo paese, tante storie salendo alla frazione Castello (Chastel, in occitano) di Pontechianale, in valle Varaita, dove ho casa e dove aveva una roccaforte François de Bardonnèche, eroe de “La via dei lupi”. Lungo la strada sono passato da Villafalletto, sempre in provincia di Cuneo e in vista del Monviso, nel piccolo cimitero dove in mezzo a orribili capannoni dedicati alla logistica sono andato a rendere omaggio alla tomba di Nicola Vanzetti, anarchico che con Bartolomeo Sacco fu giustiziato sulla sedia elettrica nel 1927 ma divennero simbolo di ingiustizia e xenofobia.

In paese, nel giro di cento metri c’erano cinque case in vendita, non so qual sia precisamente il trend demografico di Villafalletto, ma appariva un paese davvero minuscolo, perso fra i campi di granturco. Eppure di lì è passata la storia, come a Pine Ridge o a Sand Creek, luoghi divenuti immortali. Davanti alla tomba di Nicola Vanzetti ho pensato a Joan Baez, al film di Montaldo e a una bellissima mostra vista a Parigi, al Beaubourg, dedicata ad Alice Neel, pittrice newyorkese politicamente molto impegnata che, tra i suoi amici, aveva anche l’avvocato di Sacco e Vanzetti.

Certi luoghi sembrano piccoli e insignificanti, ma storicamente o psicologicamente per noi hanno un valore immenso, perché ci hanno vissuto persone che hanno emanato luce. “Di questo abbiamo bisogno – scrive Pier Carlo – di persone senza pregiudizi e di una porta sempre aperta”. Concordo in pieno.

Dunque questo modesto scritto è per voi, don Nino Salzotti e “Nicola and Bart”, ed è per quello che siamo stati e che magari, in città grandi, ricche e importanti non saremmo riusciti a diventare mai.

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Il Fatto Quotidiano

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