La dottrina Hegseth. Quattro assi per la pace attraverso la forza

  • Postato il 7 dicembre 2025
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Dal palco della Reagan Library di Simi Valley, il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha offerto quello che al Pentagono definiscono, a microfoni spenti, un’anticipazione sostanziale della prossima National Defense Strategy. Un intervento dai tratti politici e strategici, che conferma l’impronta dell’amministrazione Trump già delineata lungo la National Security Strategy: riaffermare la centralità della forza militare come garante della stabilità internazionale, liberandola da quella che viene percepita come una deriva idealistica degli ultimi anni. Anche qui, sulla falsa riga della Nss, il riferimento a Ronald Reagan non è solo simbolico. Hegseth costruisce un parallelismo diretto tra l’“Arsenal of Freedom” degli anni Ottanta e l’attuale ambizione trumpiana, quella di mantenere e accelerare la costruzione della forza militare “più potente e letale mai vista”, rigorosamente American-made.

Quattro direttrici

Nel discorso emergono quattro linee di sforzo che struttureranno l’azione del War Department nei prossimi anni. La prima riguarda la difesa della homeland e dell’emisfero occidentale. Qui, Hegseth rivendica un cambio di passo netto, che individua il confine meridionale come priorità strategica, il coinvolgimento diretto delle forze armate nel supporto a Dhs e Border Patrol, e un ritorno a quello che definisce “controllo operativo totale”. Il confine, per Hegseth, non deve essere la prima linea di difesa. Da qui la costruzione concettuale, accanto a quella di barriere fisiche, del narco-terrorismo come minaccia asimmetrica paragonabile ad al-Qaida. L’America, sostiene, deve colpire le reti criminali con la stessa sofisticazione impiegata nella guerra globale al terrorismo, coinvolgendo attivamente partner e alleati regionali.

Il secondo asse riguarda la Cina. Qui messaggio è calibrato. Deterrenza sì, ma non escalation. Hegseth parla di “realismo flessibile”, rifiutando la logica della dominazione in favore di un equilibrio di potere nel Pacifico indo-orientale. L’apertura a canali più ampi di comunicazione militare con l’Esercito popolare di liberazione serve esplicitamente a deconfliggere e de-escalare, mantenendo però il vantaggio strategico statunitense.

Sul terreno delle alleanze, terza direttrice strategica, emerge una critica esplicita all’approccio paternalistico che avrebbe caratterizzato parte della politica estera americana. Trattare gli alleati come incapaci di provvedere alla propria difesa, argomenta Hegseth, è non solo sbagliato, ma offensivo. L’obiettivo è trasferire il “modello Nato”, con la soglia del 5% del Pil per la difesa, anche ad altri quadranti strategici ed una proiezione globale basata su due scelte burden sharing reale o ridimensionamento del ruolo americano.

Il quarto pilastro, forse il più strutturale, è il rilancio dell’industria della difesa. Qui il segretario alla Difesa individua il vero collo di bottiglia della proiezione militare statunitense, caratterizzato da un sistema industriale dominato da pochi grandi prime contractor, con scarsa competizione e tempi incompatibili con la velocità del confronto strategico globale. La soluzione proposta è una trasformazione radicale dei meccanismi di acquisizione, aprendo a un ecosistema più dinamico, capace di integrare investimenti privati e scala industriale in tempi brevi.

In chiusura, Hegseth riassume così la filosofia dell’amministrazione Trump: meno idealismo, più realismo; meno ambiguità strategica, più deterrenza credibile. “Pace attraverso la forza” non come slogan, ma come architrave di una dottrina che punta a ristabilire superiorità militare, disciplina e prontezza operativa. Dove però il wording “strength” assume maggiore peso di “force”.

Autore
Formiche

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