In ‘The Inanna Project’ Thomas Richards canta le storie della dea sumera multiforme

  • Postato il 22 luglio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Siamo a Venezia, nel Teatro alle Tese dell’Arsenale, luogo di potente suggestione. Entrando nella sala, troviamo sei performer già installati nello spazio scenico circondato da gradinate. Siedono a terra sorridenti, si alzano per andare a salutare uno spettatore, si risiedono, sorridono. Sembrano ragazzi che si preparano a giocare (sono tutti giovani) piuttosto che attori che stanno per iniziare a recitare.

Intanto, da sei sono diventati sette, con l’arrivo di uno nuovo performer, meno giovane. Si tratta in realtà del regista, Thomas Richards, che rimarrà in scena anche lui tutto il tempo, assolvendo a molteplici compiti, ma restando fondamentalmente il regista coach, anche quando si assumerà l’incombenza di introdurre i singoli “pezzi” e di cucirli fra loro (con l’aiuto di una traduttrice), fornendo allo spettatore lo sfondo narrativo in cui si inseriscono, riassumendo la storia che raccontano.

E non potrebbero esserci storie più potenti e antiche di queste, che riguardano la dea sumera Inanna, celebrata in testi risalenti in alcuni casi a prima del 3000 a. C., insomma a oltre cinquemila anni fa, in anticipo di millenni sulla Bibbia e i poemi omerici, tanto per capirci.

Inanna è la protagonista di una teogonia dinamica, in divenire. Divinità multiforme, incarna la dualità e la molteplicità degli aspetti della vita, unendo in sé concetti opposti come amore e violenza. Venerata come dea della fertilità, dell’amore (soprattutto in senso fisico), della bellezza e della guerra, oltre che della giustizia, dell’agricoltura e dei cicli naturali, era spesso raffigurata con una stella a otto punte, nota anche come Stella di Ishtar, il nome che Inanna assumerà nella cultura babilonese e assira.

I poemi che la riguardano raccontano vicende “sacre” che si svolgono fra cielo, terra e mondo inferico, coinvolgendo divinità, a cominciare dalla sua vasta e complicata famiglia, uomini, demoni, animali, in una continua mescolanza di naturale e sovrannaturale. Qui la forza del numinoso è tutt’uno con la potenza irresistibile della vita all’origine, “al di là del bene e del male”.

Al tempo stesso, queste storie brulicano di situazioni archetipiche che avranno un lungo e importante futuro nel prosieguo della cultura indo-europea, fino ai testi fondativi di quella giudaico-cristiana e greca: dall’albero della vita, con il serpente che lo insidia, alla discesa all’oltretomba della stessa dea, con conseguente morte e rinascita, non senza un prezzo pesante da pagare.

Con The Inanna Project, la scelta di Thomas Richards, e dei suoi performer di Theatre No Theatre, è stata quella di raccontare cantando queste storie, piuttosto che rappresentarle, seguendo un metodo affinato in oltre trent’anni dì attività al Workcenter di Pontedera, dove il regista arrivò nel 1986 come stretto collaboratore di Jerzy Grotowski, e di cui è stato il direttore artistico dal 1999 fino alla sua chiusura nel 2022.

Ma c’è una novità di rilievo: per la prima volta ci si distacca dai canti afrocaraibici che per tanto tempo sono stati il loro campo d’indagine e di addestramento (e infatti ancora oggi vengono usati come training). Di fronte a vicende potenti come quelle di Inanna, che hanno a che fare con l’originario, ogni performer ha lavorato a recuperare canzoni e musiche che avessero a che fare in qualche modo con le proprie origini, talvolta nascoste o dimenticate.

Ed ecco allora le canzoni spagnole di Jessica Losilla-Hébrail (anche aiuto-regista), che ha radici andaluse pur essendo francese; ecco le musiche ebraiche per Ettore Brocca, quelle scozzesi-irlandesi per l’americana Kei Franklin e cubane per Alejandro Linares, spagnolo con radici caraibiche, la canzone napoletana per Fabio Pagano e, infine, l’antica tradizione coreana pansori per Hyun Ju Baek.

Credo che la chiave della riuscita di questo lavoro stia soprattutto nella scelta di presentare non un prodotto finito ma un work in progress, tenuto insieme, brechtianamente mi verrebbe da dire, nella sua fluidità da Thomas Richards, regista in scena ma anche narratore e cantante.

Da questa opzione discende ulteriormente la leggerezza, fatta di giocosità, ironia, umorismo, che caratterizza il modo in cui la compagnia ha scelto di portare fino a noi queste antichissime mitologie. Senza banalizzarle o parodiarle, come potrebbe sembrare a prima vista. Direi piuttosto con quella giusta dose di fanciullesca irriverenza che le rende meno remote senza depotenziarle.

O forse si dovrebbe parlare di una “sacra blasphemia”, che da sempre fa parte dei Misteri e della loro rivelazione concreta di verità essenziali dell’essere umano. Grotowski l’aveva chiamata “dialettica di apoteosi e derisione”. E così – grazie alla maestria del canto – il corpo torna ad essere, a tratti, un veicolo, il canale fra soggettivo e oggettivo, individuale e universale, immanente e trascendente, e qualcosa di vivo accade. Theatre No Theatre, ovvero more than theatre.

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Il Fatto Quotidiano

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