Egitto, una dittatura sempre più utile all’Europa

  • Postato il 7 novembre 2025
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di Claudia De Martino

Il 22 ottobre scorso si è tenuto un grande summit bilaterale Unione Europea – Egitto che ha svincolato altri 4 miliardi di investimenti per il Cairo e un tappeto rosso steso da tutte le più alte cariche dell’Unione per il dittatore africano, appena 1 anno e mezzo dopo la stipula (a marzo 2024) di una partnership strategica pari a 7,4 miliardi di euro per combattere l’immigrazione illegale e rilanciare l’economia egiziana.

I leaders europei ed al-Sisi hanno sottolineato la loro comune ambizione di cooperare su questioni globali e regionali definite “condivise”, tra cui vengono citate: la situazione in Medio Oriente, ovvero la stabilizzazione di Gaza, l’Ucraina, il multilateralismo, il commercio, la migrazione e la sicurezza. In concreto, oltre agli investimenti in settori quali l’idrogeno pulito, la finanza già operati nel 2024, al “meccanismo di investimento Ue-Egitto”, lanciato nel giugno 2025, che dovrebbe mobilitare altri 5,8 miliardi di dollari entro il 2027, l’ultimo vertice ha anche formalizzato l’inserimento dell’Egitto nel prestigioso Horizon Europe, il programma di ricerca e innovazione dell’Ue, aprendo le porte alla collaborazione scientifica, e assegnato altri 200 milioni di euro – una cifra modesta, ma simbolica – alla lotta alle migrazioni.

Per quanto riguarda il comunicato relativo alla protezione dei diritti umani, è talmente vago che non merita un accenno. Sembra evidente che l’Unione Europea abbia bisogno di includerlo per motivi di propaganda interna, ma senza esempi concreti di azioni da citare. Del resto, basta sfogliare i rapporti annuali di Amnesty International per rendersi conto che i dati sulla repressione del regime siano rimasti invariati: le autorità hanno infatti continuato a soffocare la società civile e a limitare le proteste, incluse quelle pro-Palestina che teoricamente dovevano sostenere, a compiere arresti arbitrari di oppositori e gesti vacui e plateali, come il rilascio di 934 prigionieri detenuti per motivi politici al posto dei quali però ne sono stati arrestati altri 1.594 tra giornalisti, avvocati, manifestanti, dissidenti vari, che si sommano agli oltre 7400 cittadini ingiustamente processati a vario titolo nelle corti militari.

Ormai la maggior parte degli oppositori non si pronuncia nemmeno più contro la natura del regime, data per scontata, ma si concentra sulla critica della gestione economica del governo, che lascia il 33% della popolazione sotto la soglia di povertà nonostante le roboanti promesse di sviluppo contenute nel piano 2030.

A seguito del primo programma di ristrutturazione del debito del FMI e adottato dall’Egitto nel 2016, il tasso di inflazione aveva infatti raggiunto il 33,3% nel 2024 mentre i sussidi al carburante e ai generi di prima necessità erano stati aboliti e continui blackout elettrici si succedevano a causa della crisi energetica. Di fronte all’ampia crisi sociale indotta dai tagli imposti dal FMI, il governo ha pensato bene di reprimere tutte le manifestazioni spontanee contro il caro-vita come atti di lesa maestà, mantenendo invariati i livelli di spesa per la protezione sociale, la sanità e l’istruzione, che erano già tra i più bassi dell’area MENA, dal momento che il governo non è riuscito nemmeno a rispettare l’obbligo costituzionale di destinare almeno il 3% del Pil alla sanità e il 6% all’istruzione.

Tutto questo mentre premeva sugli sgomberi forzati dagli insediamenti informali ma anche su quelli di intere aree oggetto di investimenti internazionali, soprattutto emiratini, come nei casi del quartiere di El-Gameel, a Port Said, dove vivevano circa 2.500 famiglie che sono state evacuate senza indennizzo, e dei casi analoghi sull’isola di Warraq Nile o a Ras al-Hekma, sulla costa mediterranea dell’Egitto.

Nell’incontro bilaterale da poco concluso, l’Ue si è anche congratulata con l’Egitto “per aver accolto milioni di rifugiati e richiedenti asilo (… ), nel pieno rispetto del diritto internazionale”, aggiungendo inoltre che “l’Ue riconosce i preziosi sforzi compiuti dall’Egitto per migliorare la governance nazionale in materia di migrazione e asilo, compresa l’adozione della legge nazionale sull’asilo nel dicembre 2024, in linea con la Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati” (si veda la dichiarazione congiunta).

La dichiarazione va accolta con un certo sarcasmo, se è vero che, secondo l’UNHCR, degli oltre 841.922 rifugiati e richiedenti asilo registrati, tra cui molti Sudanesi in fuga dalla guerra civile, le autorità egiziane ne avrebbero arrestati arbitrariamente ed espulsi illegalmente migliaia, violando il principio di non-refoulement stabilito a Ginevra, l’accesso alle scuole pubbliche per i bambini rifugiati resterebbe un miraggio, le forze di sicurezza avrebbero continuato a esigere da ogni migrante un garante egiziano e il pagamento di 1000 dollari per la regolarizzazione, e per finire la nuova legge sull’asilo, fresca di stampa, sarebbe priva di garanzie di un giusto processo e consentirebbe la detenzione arbitraria di rifugiati e richiedenti asilo, come denunciato da Amnesty International.

È chiaro che il successo della leadership di al-Sisi sia da cercarsi altrove: non nella sua performance economica, che nonostante gli ingenti sforzi e tagli imposti alla popolazione e l’alto volume di investimenti esteri, rimane prigioniera del conglomerato militare, che controllo tra il 25 e il 40% dell’economia egiziana tarpandone il potenziale, né nella sua capacità di governance democratica, dati i pessimi risultati conseguiti dal “dialogo nazionale” e sui diritti umani, ma nella sua stabilità di governo, che al-Sisi sembra assicurare con pugno di ferro, nel suo ruolo di stabilizzazione del conflitto a Gaza, celebrato al vertice di pace di Sharm el-Sheikh dello scorso 13 ottobre, e in quello di bastione anti-immigrazione e anti-fratelli musulmani, che garantisce all’Occidente di fare parte del “lavoro sporco” per lui (non è un caso che le migrazioni si siano ridotte del 22% nell’ultimo anno).

Difronte a ciò, è prevedibile che l’Egitto, a dispetto di tutti i film di denuncia come “The Eagles of the Republic” di Tarek Saleh, giustamente acclamato a Cannes, la cui visione fa letteralmente venire i brividi perché denuncia con ironia e franchezza tutta la brutalità del regime egiziano e la sua velleità di soffocare ogni barlume di protesta, continui ad essere celebrato come un “paese arabo moderato” in Europa, per cui esso coincide con le spiagge di Sharm el-Sheikh, ottimi investimenti in energia e sicurezza e le piramidi, per i più colti.

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Il Fatto Quotidiano

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