Avremo la parità di genere tra duecento anni: in attesa del 2225, accontentiamoci delle mimose
- Postato il 8 marzo 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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8 marzo 2025, ci risiamo. Celebriamo la Giornata internazionale della donna, detta anche “mai una gioia”. Per raccogliere un briciolo di entusiasmo si deve essere allenate come provette sciatrici e fare lo slalom tra gli attacchi alla 194 e il coro dei gruppi di preghiera che molestano le donne davanti ai reparti dove si pratica l’Ivg, scartare le discriminazioni sul lavoro, le molestie varie ed eventuali, l’odio social, la povertà, i soffitti di cristallo e il quotidiano sessismo che allieta le nostre giornate. Quello che incontriamo nel Parlamento come nelle aule dei tribunali, quello elegante che si annida nella mente di fini intellettuali e che sta bene su tutto, come il nero, o quello shocking cafone delle battute degli avventori al bar o dei tifosi di calcio.
Pescando a caso nel mucchio: quel padre che il 23 febbraio, seduto sugli spalti di un campetto di calcio, si improvvisa Bruno Pizzul (recentemente scomparso) e commenta in diretta Facebook la partita del secolo: quella tra l’Achillea e il Grifone Gialloverde. Lo fa denigrando una arbitra di 16 anni che, essendo “femmina”, avrebbe fatto meglio a “cucinare gli gnocchi”. Tutto avviene in diretta streaming fra le risatine di altri illuminatissimi padri. Gli stessi che invitano le donne a stare a casa per accudirli perché, pur dotati di pollice opponibile e di mansplaining, non sono in grado di cucinarsi uno gnocco o un uovo.
Del resto, il sessismo soffia anche nei venti freddi dell’autoritarismo dell’estrema destra: “La funzione delle donne è quella di fare figli e di accudirli” insieme ad anziani e ai mariti, sempre quelli col pollice opponibile che hanno bisogno di una donna che li accudisca o si occupi dei figli.
Ma veniamo ai dati. E’ uscito da poco il report Sesso è potere, curato da info.nodes e onData e redatto da un team di ricercatrici e giornaliste (uso il femminile sovraesteso, è pur sempre l’8 marzo). Esiste, per usare le parole di Giulio Cavalli che ha commentato il report, “una maschiocrazia trasversale”. Solo il 15% delle persone che amministrano comuni italiani sono donne; la percentuale di deputate e senatrici è ferma al 34%; il Governo Meloni è composto per il 75% da uomini, è evidente che una presidente del Consiglio non faccia una primavera.
Va male anche nell’economia. Nelle cinquanta aziende italiane a maggiore capitalizzazione quotate nella borsa di Milano, gli uomini ricoprono posizioni apicali in 48 casi su 50. Male anche nei Gruppi bancari italiani e nelle società tecnologiche italiane presenti nell’Euronext Tech Leaders. E il potere mediatico? Solo il 6% delle testate più importanti è diretto da donne. Ma mettiamo da parte la partecipazione delle donne ai ruoli di potere e prestigio – non esageriamo – e rimaniamo sul terreno dell’umiltà, anzi della sopravvivenza.
Sono usciti i dati del Cnel e l’Istat sull’occupazione femminile. C’è una lenta crescita dell’occupazione femminile ma l’Italia rimane il Paese col più basso tasso di occupazione d’Europa, meglio di noi Grecia e Malta. Permangono grandi disparità territoriali che si sommano a quelle generazionali, della cittadinanza e del livello di istruzione. Nel Nord sono occupate il 62,8% delle donne, tra 15 e 64 anni, quota che scende al 59,9% nel Centro e diviene poco più di un terzo nel Mezzogiorno (37,2%).
La vulnerabilità lavorativa resta maggiormente diffusa tra le donne. Tra gli uomini circa sette occupati su dieci possono contare su un lavoro standard (dipendente a tempo indeterminato o autonomo con dipendenti) mentre le donne in quella stessa situazione sono poco più della metà (53,9%). Quasi un quarto delle donne che lavorano – quasi 2 milioni e mezzo – presentano elementi di vulnerabilità, contro il 13,8% gli uomini.
Il precariato o il part time riguarda soprattutto le lavoratrici. A incidere maggiormente sulla differenza tra uomini e donne è il fatto di svolgere un lavoro a orario ridotto non per scelta: le lavoratrici che hanno come unico elemento di vulnerabilità il part time involontario sono il 8,6% rispetto al 2,5% degli uomini. La vulnerabilità lavorativa è maggiormente presente al sud, soprattutto in agricoltura, alberghi, ristorazione e servizi alla famiglia.
Le madri hanno un’occupazione più bassa rispetto alle donne senza figli. Anche perché persiste uno scarso utilizzo del congedi parentali, l’80% è utilizzato dalle donne. Il peso del lavoro di cura resta sulle spalle delle madri. Il 69,3% delle donne che vivono da sole ha un impiego, percentuale che, pur restando tra le più elevate, scende al 62,9% tra le madri sole e al 57,2% tra le madri in coppia (più di 12 punti di distanza dalle single). Un dato significativamente più basso riguarda le donne che vivono come figlie nella famiglia di origine, con un tasso di occupazione pari al 31,1%, in conseguenza sia dell’investimento in percorsi di formazione, sia delle difficoltà di accesso al mercato del lavoro delle più giovani.
Il carico familiare continua comunque a rappresentare un motivo di rinuncia all’attività lavorativa, soprattutto quando ci sono bambini in età prescolare. Nella fascia d’età tra i 25 e i 34 anni, meno della metà delle madri risulta occupata, a fronte di oltre il 60% nella fascia tra i 35 e i 54 anni.
Secondo alcuni studi pare che ci vorranno 200 anni per avere la parità occupazionale tra uomini e donne e per abbattere le discriminazioni. Sarà bello celebrare la Giornata della donna nel 2225: per il momento accontentiamoci del mazzetto di mimose.
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