Armi al posto di investimenti e formazione: l’Europa prepara il futuro sbagliato

  • Postato il 4 luglio 2025
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di Rocco Ciarmoli

In un’Europa attraversata da trasformazioni epocali c’è una domanda che continua a essere evitata: come affrontare la disoccupazione digitale. Mentre si moltiplicano convegni sull’AI, previsioni sull’automazione, piani per l’efficientamento digitale, i numeri restano impietosi. Entro il 2030, milioni di posti saranno spazzati via da algoritmi e macchine intelligenti. Addetti ai call center, contabili, impiegati pubblici, autisti, operai generici: tutti profili “esposti” alla sostituzione. Eppure, invece di prepararsi con formazione, investimenti civili e filiere sostenibili, l’Europa sta scegliendo una strada più antica e pericolosa: quella della guerra.

In Germania, il colosso Rheinmetall, nato come produttore di componenti auto, sta riconvertendo fabbriche di Berlino e Neuss in impianti per la produzione di munizioni e veicoli militari. Lo stesso accadrà con lo stabilimento Volkswagen di Osnabrück, destinato al carro armato KF41 Lynx. Parallelamente, Rheinmetall ha firmato accordi con Lockheed Martin e Northrop Grumman per costruire fusoliere del caccia F‑35 in Renania. Produzione al via nel 2026 con almeno 400 unità previste.

Non si tratta più di episodi isolati: è un cambio strutturale del modello industriale europeo. In Italia si discute di fare lo stesso. Il ministro Urso ha invocato “una rivoluzione industriale” con produzioni dual-use: fabbriche capaci di passare dalle auto alle armi. Il piano ReArm Europe prevede incentivi per favorire questa transizione. Tradotto: soldi pubblici per costruire strumenti di morte, anziché servizi di vita. Ma qual è il vero impatto sui lavoratori?

A parole, si parla di rilancio dell’occupazione. Nei fatti, la riconversione bellica comporta una riduzione del personale non specializzato, un aumento delle competenze richieste, una maggiore precarietà legata ai cicli geopolitici. Oggi le armi servono, domani forse no. E le fabbriche? Si richiudono. Intanto, intere generazioni vengono addestrate non a innovare, ma a costruire cannoni, droni, munizioni.

In più, le aziende della difesa, per ragioni di sicurezza, godono di livelli di trasparenza e sindacalizzazione molto inferiori rispetto a quelle civili. Meno tutele, meno diritti, più silenzio. Siamo entrati nell’era dell’industria di guerra travestita da opportunità occupazionale. Un’epoca in cui si parla di “resilienza” e “riconversione”, ma si intende militarizzazione dell’economia.

Il rischio è chiaro: sostituire il lavoro civile con quello militare significa alterare la cultura del lavoro. Non più creare per migliorare la società, ma produrre ciò che serve a difendersi in un mondo sempre più instabile.

E tutto questo accade mentre l’IA avanza come un treno, minacciando impieghi ben più numerosi di quelli che le armi potranno mai sostituire. Ma chi governa preferisce non vederlo. Perché formare cittadini consapevoli, investire nella scuola, riconvertire le imprese al green o alla cura, richiede tempo, visione, coraggio. Mentre finanziare la guerra è immediato, redditizio, politicamente compatto.

Oggi Rheinmetall vale in borsa più di Volkswagen. E questo dovrebbe farci riflettere.
Il futuro che stiamo costruendo non è figlio del progresso. È figlio della paura. E un lavoro che nasce dalla paura non sarà mai davvero libero.

John Maynard Keynes, già nel 1930, avvertiva: “Non stiamo soffrendo per colpa delle forze economiche, ma per la nostra incapacità a gestirle, per il comportamento disordinato degli uomini. La difficoltà non sta nelle risorse, ma nell’uso che ne facciamo.” A quasi un secolo di distanza, la sua diagnosi resta intatta: non ci mancano le risorse, ci manca il coraggio di usarle per il bene comune. E così, mentre l’intelligenza artificiale potrebbe liberarci dal lavoro servile, noi investiamo in cannoni.

Mentre il sapere cresce, scegliamo la paura come bussola. Ma se l’economia smette di essere uno strumento civile, e si piega al potere, allora il lavoro, invece di salvarci, rischia di diventare la sua parodia.

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Il Fatto Quotidiano

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