Restiamo schiavi di desideri inutili che un altrove governa
- Postato il 15 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Rosamaria Fumarola
Oggi non abbiamo un grande valore in quanto esseri umani. Il problema nasce dalla definizione corrente di cosa sia un essere umano e non mi riferisco a ciò che sulla carta lo definisce. Esiste infatti un numero infinito di norme nazionali ed internazionali che tutelano i diritti degli individui, ma che spesso non riescono a reggere la prova con la realtà. Come viene tutelata ad esempio l’infanzia di un minore a Gaza? Tutto ciò che formalmente è riconosciuto: diritto allo studio, alimentazione sana, gioco, cure mediche, viene negato come nemmeno la fantasia più perversa di un regista di film dell’orrore saprebbe immaginare.
Quest’orrore non è poi così lontano. I paesi di cui siamo cittadini non regalano, infatti, volentieri i diritti e spesso bisogna molto combattere affinché vengano riconosciuti. La legge ci tutela dai soprusi, ma in realtà è più la sua cogenza ed il timore della sanzione che ne conseguirebbe ad imporne il rispetto. È dunque più che legittimo chiedersi quale sia il sentimento comune quando si parla di esseri umani, quale sia cioè il valore che ci viene riconosciuto in seno alla società, indipendentemente da ciò che le norme giuridiche o la religione impongono.
La risposta non è rasserenante. A conti fatti valiamo poco. L’essere umano non è infatti oggi centrale, non è ordinatore nel caos del mondo, non è fiero portatore di conquiste civili e morali come per secoli è stato. Certo, serve ma, piaccia o meno, è svuotato di tutto ciò che non può tradursi in un prezzo. Valiamo poco, quasi nulla e quel “quasi” interessa solo a noi. Che questo sia somigliante alla realtà ad esempio di uno schiavo ad Atene o a Roma è difficile stabilirlo, ma senz’altro le società greca e romana avevano bisogno di un’unità di misura imprescindibile, che poteva incarnarsi esclusivamente nell’ uomo e dell’uomo diventava perciò necessario interessarsi.
La situazione attuale, come ci ha insegnato Bauman, è invece liquida, pronta continuamente a cambiare forma senza che si possa immaginare quale ne sarà la prossima. La sola cosa certa è che la nostra condizione non acquista, in questi repentini cambiamenti, maggior peso o valore e che soprattutto restiamo incapaci di autodeterminarci. Viviamo un perenne desiderio che non trova il tempo della soddisfazione, sollecitato continuamente da oggetti, esperienze, mondi diversi e questo non possedere mai ci impedisce di capire, di creare relazioni con cose e persone fino ad annullare la possibilità di essere e costruire.
Nel limbo al quale siamo destinati non valiamo più nulla e privati come siamo della normale esperienza delle cose attraversiamo l’esistenza velocemente, lasciando scarne tracce del nostro passaggio. Restiamo schiavi di desideri inutili che un altrove governa, inutili anche noi in quanto individui, perché se è il desiderio che conta non importa chi lo prova ma solo che un io indistinto lo avverta. Tutto ciò diventa palpabile se si guarda alla vita di coloro che invecchiano, trattati come polli in batteria, senza un passato da rivendicare, prigionieri di un presente a cui non interessa quale sia stata la loro vita, i loro sogni o il loro lavoro. E pensare che invece solo il racconto aprirebbe una breccia restituendo valore alle vite. È il racconto, ascoltato o letto, che crea mondi e prospettive uniche, il racconto che è arte anche quando a farlo è un nonno ad un nipote, non solo Dante nella Divina Commedia.
Si è appena conclusa la Mostra del Cinema di Venezia ed il Leone d’Argento è stato assegnato al film della regista tunisina Kaouther Ben Hania La voce di Hind Rajab che narra la storia della bambina palestinese uccisa dagli israeliani mentre, intrappolata in un’auto implorava aiuto. A Gaza ci sono decine di migliaia di storie non lontane da quella raccontata nel film, le immaginiamo ma non incidono sulle nostre vite, sul nostro sentire, fino a quando qualcuno non si assume la responsabilità, che oggi è anche coraggio, del loro racconto.
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