Nei gruppi come ‘Mia moglie’ la dimensione collettiva normalizza la violenza: così si parla di ‘stupro virtuale’
- Postato il 23 agosto 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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C’è un’Italia che non appare nelle aule di giustizia ma che si consuma, ogni giorno, dentro i gruppi Facebook. Pagine dai nomi apparentemente innocui – come “Mia moglie” o “Ex moglie pazza” – diventano spazi in cui si riversa rancore, si costruiscono narrazioni unilaterali, si denigrano persone precise.
Qui, il linguaggio non è mai neutro: si alimentano stereotipi sessisti, si pubblicano foto, si insinuano accuse che, nella logica virale della rete, si trasformano in verità incontestabili.
Il punto è che, da un punto di vista processuale penale, questa non è solo sociologia digitale: è giuridicamente rilevante. Ogni volta che il nome, il volto, la vita privata di una persona vengono esposti in un contesto denigratorio, si configurano ipotesi di diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità (art. 595, comma 3 c.p.), che la giurisprudenza della Cassazione considera pacificamente applicabile ai social network.
In più, quando circolano dati personali o immagini senza consenso, si entra nel campo della violazione della privacy e del trattamento illecito di dati, reati autonomi che si intrecciano con la disciplina europea sul Gdpr. La verità è che i gruppi come “Mia moglie” mettono in luce la crisi del diritto processuale nell’era digitale: il procedimento penale, con i suoi tempi e le sue garanzie, fatica a contrastare la rapidità con cui la rete costruisce e diffonde stigma.
La lesione della dignità si consuma in ore, mentre il fascicolo si muove in mesi o anni. Questo tipo di “stupro virtuale” — seppur non corrisponda a un reato specifico codificato — configura una pluralità di illeciti penali e, da un punto di vista giuridico, si colloca all’intersezione di più fattispecie in cui, ad esempio la Cass. pen., sez. III, 26 luglio 2021, n. 32404, ha riconosciuto la punibilità anche in caso di condivisione tramite WhatsApp di foto inviate consensualmente ma destinate alla sfera privata.
La disciplina del revenge porn, inoltre, introdotta dall’art. 612-ter c.p. nel 2019, punisce la diffusione di immagini sessualmente esplicite destinate a rimanere private, con il problema interpretativo circa l’applicabilità anche a immagini non pornografiche ma intime e degradanti. Infine, l’istigazione alla violenza sessuale e l’apologia di reato quando i commenti assumono toni di incitamento esplicito.
Il recente caso del gruppo Facebook “Mia moglie”, chiuso da Meta dopo l’ondata di denunce pubbliche e segnalazioni alla Polizia Postale, impone dunque di interrogarsi su una forma di violenza che la dottrina (esiste un mirabile lavoro attualmente in corso presso l’Università di Torino dal titolo Responsibility, Ethics, and digital Sexual Predation – Evaluating Conceptual Tools (Respect), finanziato dal MUR tramite il programma Young Researchers – Seal of Excellence) sta iniziando a definire come stupro virtuale.
Non è una metafora: non vi è contatto fisico, ma la percezione della vittima è quella di una violenza sessuale subita in pubblico, amplificata dall’assenza di controllo e dalla viralità della rete. Sul piano del diritto positivo, non esiste nel Codice penale una fattispecie specifica di “stupro virtuale”. L’elemento innovativo – e processualmente problematico – è la dimensione collettiva e sistematica del fenomeno: non un singolo atto, ma una comunità che normalizza la violenza.
È qui che la nozione di “stupro virtuale” diventa più di una metafora giornalistica: si tratta di una condotta che produce nella vittima una percezione di violazione sessuale, pur in assenza di contatto fisico.
Dal punto di vista processuale-penale, le criticità sono molteplici: da un lato la qualificazione giuridica, perché l’assenza di una fattispecie autonoma rischia di derubricare a meri reati di opinione condotte che invece incidono sulla libertà sessuale, dall’altro la tempestività della risposta giudiziaria, perché i tempi del procedimento penale risultano incompatibili con la velocità distruttiva della rete.
La giurisprudenza della Corte Edu, in casi come Delfi AS c. Estonia (2015) e Sanchez c. Francia (2023), ha ribadito la responsabilità per i contenuti online laddove questi determinino una lesione della dignità e incitino alla violenza, ma il sistema italiano non dispone ancora di misure cautelari agili e standardizzate per l’oscuramento immediato di gruppi e contenuti lesivi.
A ciò si aggiunge il problema probatorio: la raccolta delle evidenze digitali richiede tecniche forensi qualificate per garantire l’autenticità e l’utilizzabilità in giudizio, mentre oggi troppo spesso è affidata alla documentazione privata delle vittime. In prospettiva comparata, ordinamenti come quello britannico hanno introdotto il reato specifico di cyber harassment e negli Stati Uniti il cyber sexual harassment è perseguito anche in base al Titolo IX della Costituzione e a normative federali sui crimini informatici, mentre in Italia si continua a frammentare la qualificazione delle condotte.
Per questo, la risposta processuale deve articolarsi su tre livelli: misure cautelari immediate che consentano di bloccare la diffusione in rete prima che il danno diventi irreversibile, protocolli probatori uniformi che garantiscano l’acquisizione e la conservazione delle prove digitali, estensione delle tutele del Codice Rosso alle forme di violenza online con percorsi prioritari anche in assenza di contatto fisico.
La posta in gioco è la capacità del processo penale di riconoscere che la violenza digitale non è un “reato minore” ma una nuova forma di violenza sessuale che, pur consumandosi nello spazio virtuale, produce conseguenze reali e devastanti sulla vita delle persone che non può ridursi a rincorrere i danni già prodotti, ma deve imparare a intervenire prima che la rete trasformi la vittima in una “non-persona”, umiliata e violata agli occhi di migliaia di sconosciuti.
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