In ‘Critica della ragione pandemica’ l’amara riflessione di Serena Tinari: il giornalismo ha tradito la sua missione
- Postato il 19 aprile 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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POLI-COVID-22 è stato il primo evento accademico italiano interamente dedicato alla pandemia da Covid-19. Programmato con mesi di preparazione sotto il patrocinio del Politecnico di Torino, il congresso si proponeva di ospitare un dibattito multidisciplinare e aperto, con studiosi provenienti da istituzioni italiane e internazionali. Il comitato scientifico, di cui ho fatto parte fin dall’inizio, e il comitato organizzatore avevano lavorato a lungo per costruire un panel autorevole e in dialogo costante con le autorità sanitarie pubbliche, che avrebbero dovuto inviare i propri esperti.
Il programma era articolato in cinque aree tematiche: Biologia; Medicina; Diritto; Bioetica; Sociologia e Comunicazione. L’obiettivo era analizzare criticamente le basi scientifiche delle politiche pandemiche, in un clima di confronto fin lì mancato nel dibattito pubblico. Tuttavia, a due settimane dall’evento, i membri del comitato scientifico afferenti all’Istituto Superiore di Sanità e all’ ex Comitato Tecnico Scientifico e i relatori da loro invitati si ritirarono, e di conseguenza a pochi giorni dall’inaugurazione del congresso il Politecnico di Torino revocò il patrocinio. Le sedi previste non furono più disponibili.
Nonostante ciò, il congresso si svolse comunque in un centro ricreativo-sportivo. Le registrazioni sono tuttora accessibili online. Da quell’esperienza è nato il libro Critica della ragione pandemica, pubblicato da Meltemi il 28 marzo 2025, un’opera collettiva di 770 pagine curata dai proff. Federica Cappelluti, Paolo Laviano e Francesco Laviano, con saggi nell’ambito della medicina di autori come Peter Doshi, John Ioannidis, Sunetra Gupta (in versione bilingue) e la sottoscritta. Tra i partecipanti c’era la giornalista investigativa Serena Tinari, esperta di salute pubblica e industria farmaceutica e co-fondatrice di Re-Check.ch, che nel suo saggio, adattato per Trust the Evidence, racconta un percorso professionale e umano segnato da una domanda cruciale: che fine ha fatto il giornalismo?
Nel racconto di Tinari, la pandemia ha rappresentato un punto di non ritorno per il giornalismo. Una “valanga inarrestabile” ha trasformato reporter generalisti in esperti improvvisati di virologia, vaccini e statistiche, pronti a tradurre ogni comunicato ufficiale in verità assodata, senza verifica né confronto. Un’intera professione si è adattata al panico, perdendo il proprio ruolo critico.
Tinari, giornalista con decenni di esperienza nel settore sanitario, aveva già vissuto qualcosa di simile nel 2010, durante l’epidemia di influenza suina (H1N1). Allora, coprendo il tema per la televisione svizzera, aveva riconosciuto somiglianze con la precedente “influenza aviaria” (H5N1): campagne mediatiche gonfiate, scelte terapeutiche discutibili e l’antivirale Tamiflu promosso senza basi solide. L’inchiesta che ne derivò è raccontata nei documentari “The Phantom of the Pandemic” e “The Business Flu. The Tamiflu Saga”. Il lavoro sul Tamiflu le fece incontrare ricercatori indipendenti della Cochrane Collaboration, tra cui Tom Jefferson. Grazie a loro iniziò a studiare a fondo la metodologia dei trial clinici e la manipolabilità dei dati. Tinari richiama che, come scrisse Darrell Huff nel 1954, “le statistiche possono dimostrare qualsiasi cosa” e che “Se torturi i dati abbastanza a lungo, confesseranno qualunque cosa”, citazione attribuita a Ronald Coase.
In quegli anni, Tinari ebbe l’opportunità di osservare i meccanismi del “pack journalism” (giornalismo “a branco”) e di come una notizia nasca: un comunicato stampa diventa lancio d’agenzia, poi servizio televisivo, infine “fatto” condiviso, che condiziona opinione pubblica e decisioni istituzionali.
Nel 2015 fondò con Catherine Riva l’organizzazione Re-Check, per indagare e mappare le politiche sanitarie con metodi di giornalismo investigativo e medicina basata sulle prove. L’obiettivo era trasmettere strumenti critici ai colleghi. Ma, ammette, “ci sbagliavamo”: nonostante anni di formazione e la stesura di guide specialistiche per la rete internazionale GIJN (la Global Investigative Journalism Network), l’impatto fu nullo.
Con l’avvento della pandemia Covid-19, la situazione precipitò. I giornalisti abbandonarono ogni distanza critica. Tinari si ritrovò ai margini: solo un media le offrì spazio, purché non parlasse di medicina; un altro la ingaggiò per un documentario poi distorto da gravi errori. Spesso veniva consultata da colleghi per ore, ma le sue parole venivano ignorate o stravolte.
Il giornalismo ha smesso di “verificare” e ha scelto di “fare da ripetitore”. La complessità della salute pubblica è stata ridotta a un singolo virus, con un’unica narrativa. Le voci dissenzienti, anche di scienziati di fama indiscussa, sono state escluse o demonizzate. Il mito che “gli scienziati fossero tutti d’accordo” ha oscurato la realtà: chi non lo era, non aveva accesso ai media. In parallelo, il ruolo dei giornalisti è stato progressivamente assunto da fact-checker spesso legati a governi, Ong, intelligence e big tech. Questi attori si sono eretti ad arbitri della verità, spesso senza competenze scientifiche. Il risultato è stato una stampa disorientata e servile, incapace di contrastare la propaganda o di offrire spazio al dubbio.
Le conseguenze sono state gravi: la stigmatizzazione con etichette come “no vax”, “negazionista”, applicate anche a studiosi riconosciuti dalle agenzie regolatorie così come a persone danneggiate dai vaccini, e la creazione di “mostri narrativi” hanno alimentato odio e divisione sociale. Intanto, gli aspetti cruciali – contratti miliardari, trattamenti inefficaci, danni collaterali delle misure restrittive – sono stati ignorati.
Il giornalismo ha perso credibilità. Non c’è stata autocritica. Nessun titolo ha ancora mai detto: “Ci siamo sbagliati”. Eppure, molte delle tesi bollate come “complottiste” si sono rivelate vere: la reale letalità del virus, i limiti dell’efficacia vaccinale, i rischi degli interventi non farmacologici.
Tinari conclude con un’amara riflessione: il giornalismo ha tradito la sua missione. Eppure, qualcosa resta: “Una cosa l’ho imparata, e la ripeto sempre a mia nipote: la verità, in medicina, giornalismo e propaganda, prima o poi viene fuori. Purtroppo, a volte ci vogliono decenni.
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