Bolsonaro condannato, in Brasile si parla di amnistia: ora tocca al popolo vegliare sulla propria democrazia
- Postato il 15 settembre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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“La presente azione penale è quasi un incontro del Brasile con il suo passato, con il suo presente e con il suo futuro”. Così Cármen Lúcia, giudice della prima sezione del Tribunale Supremo Federale, ha motivato il voto che, l’11 settembre, ha reso certa la condanna dell’ex presidente Jair Bolsonaro – sentenziato a 27 anni e 3 mesi – e di altri sette co-imputati per il tentativo di colpo di stato.
La storia del Brasile lascia pochi dubbi circa l’eccezionalità del verdetto. In passato, nessun colpo di stato, tentato e ancor di meno riuscito, era terminato con la condanna dei suoi responsabili. Il paese, sin dalla sua indipendenza, è stato soggetto al periodico intervento dei militari e alla rottura violenta dell’ordine costituzionale. L’ultima interruzione della legalità democratica, avvenuta nel 1964, era scaturita in una feroce dittatura militare, durata fino all’elezione diretta di José Sarney nel 1985.
Il tentativo di colpo di stato portato avanti da Bolsonaro era culminato nell’attacco dell’8 gennaio 2023 alle sedi di esecutivo, legislativo e giudiziario nella Praça dos Três Poderes di Brasilia da parte di una folla inferocita di sostenitori. In un’azione quasi identica a quella avvenuta presso il Campidoglio statunitense due anni prima, l’obiettivo era quello di spodestare Lula, insediatosi al governo pochi giorni prima. Secondo l’impianto accusatorio avanzato dalla Procuratoria Generale della Repubblica e accolto pressoché in toto dai giudici, l’assalto delle principali sedi istituzionali non era che l’ultimo tassello di una trama criminale ordita sin dal 2021.
Il primo passo era consistito nella sistematica squalifica del Tribunale Supremo Federale, e in particolare nelle minacce rivolte al giudice Alexandre de Moraes, relatore sia del processo appena concluso, sia, all’epoca, di altre inchieste riguardanti sempre Bolsonaro e i suoi alleati. L’anno successivo, l’ex presidente, anticipando la possibilità di un rovescio nelle successive elezioni, aveva inoltre iniziato a disseminare dubbi del tutto infondati circa l’affidabilità del sistema elettronico di voto.
L’escalation è avvenuta durante le elezioni, con un operativo della polizia stradale teso a impedire l’accesso alle urne a migliaia di elettori nel nord-est del Brasile, uno dei bastioni elettorali di Lula. Ma è stato a seguito dei comizi persi che è emersa con chiarezza la piega eversiva del bolsonarismo: dapprima con l’installazione nel post-elezioni di un accampamento di protesta di fronte al quartier generale dell’esercito che ne invocava la mobilitazione, e in seguito con gli atti vandalici avvenuti il 12 dicembre 2022 e l’installazione di un artefatto esplosivo trovato presso l’aeroporto di Brasilia alla vigilia di Natale, e non deflagrato solo in virtù di un difetto di montaggio.
A provare in maniera inequivoca le responsabilità di Bolsonaro è stata, tuttavia, la bozza del colpo di Stato, trovata nel cellulare di Mauro Cid, aiutante di campo dell’ex capo di Stato – poi convertitosi in collaboratore di giustizia. In questo documento, veniva decretato lo stato d’assedio che avrebbe di fatto impedito la transizione del potere a Lula. Contestualmente, è emersa l’esistenza di un piano, ribattezzato “pugnale verde-giallo”, volto ad assassinare Lula, il suo vice Geraldo Alckmin e de Moraes, stilato dal generale Mario Fernandes, ex Segretario generale della presidenza.
Infine, è stata fattualmente verificata la riunione con i vertici delle Forze armate che avrebbe dovuto dare avvio al golpe, il quale non si è materializzato solo in virtù della mancata adesione dei comandanti dell’esercito di terra e dell’aeronautica.
Nella requisitoria che ha accompagnato il suo voto, de Moraes ha dichiarato che la pacificazione del paese dipende dall’applicazione della legge e che nessun tipo di ingerenza potrà interferire in questo senso. Il riferimento era doppio.
Sul piano esterno, Donald Trump ha lanciato negli ultimi mesi una pesante offensiva con l’obiettivo di sottrarre l’amico Bolsonaro alla giustizia. In una lettera pubblica rivolta a Lula a luglio, ha definito il trattamento ricevuto dal suo sodale brasiliano come una “disgrazia internazionale” e annunciato dazi del 50% per l’export brasiliano come misura punitiva. Poco dopo, ha applicato la cosiddetta legge Magnitsky a de Moraes, che prevede sanzioni molto simili a quelle applicate a Francesca Albanese.
Tali misure non sembrano aver giovato granché. Da una parte, hanno permesso a Lula di ergersi a difensore della sovranità con ripercussioni positive sulla sua popolarità; dall’altra, in barba alle intimidazioni, de Moraes ha sottoposto Bolsonaro a crescenti misure cautelari precedenti alla condanna, culminate negli arresti domiciliari.
Sul fronte interno, il parlamento brasiliano ha nel frattempo dato segni di voler avviare un provvedimento di amnistia. Al momento, le forze politiche favorevoli a qualche forma di clemenza differiscono sensibilmente circa la portata e i beneficiari. Ad ogni modo, qualora approvato, Lula potrebbe esercitare il veto al provvedimento, opposizione che potrebbe a sua volta essere ribaltata da un’insistenza del parlamento. L’ultima parola però spetta alla Corte suprema, la quale, con ogni probabilità, annullerebbe l’amnistia. Non va però dimenticato che il futuro Presidente avrà il compito di eleggere due nuovi giudici della Corte, i quali avranno la possibilità di consolidare questo criterio o, eventualmente, di aprire nuovi scenari.
La possibilità dell’impunità, in questo senso, non è ancora del tutto preclusa: spetta al popolo brasiliano vegliare sulla propria democrazia.
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