‘Anatomia della battaglia’ di Sartori: la grama discesa del padre e il fascismo come ‘categoria dell’umano’

  • Postato il 19 aprile 2025
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C’è qualcosa del grande scrittore ebreo polacco Bruno Schulz nel romanzo Anatomia della battaglia di Giacomo Sartori, appena riproposto da TerraRossa Edizioni dopo che era uscito, con successo, per la Sironi di Mozzi, vent’anni fa. E c’è una crudele bellezza, una sorta di malinconico disincanto nell’osservare il tempo che passa e nel congedarsi dal secolo, il Novecento, nel quale affondiamo le nostre radici.

Così come Sartori, Bruno Schulz – tra i più geniali, stravaganti e misconosciuti scrittori del Novecento – rende omaggio postumo e commosso al padre, che non aveva capito ai tempi della giovinezza: “Quell’avventura di mio padre con gli uccelli – scrive Schulz – fu l’ultima esplosione di colore, l’ultima e brillante contromarcia della fantasia che quell’incorreggibile improvvisatore, quel maestro schermitore dell’immaginazione conducesse sui bastioni e le trincee di un inverno sterile e vuoto. Soltanto oggi comprendo il solitario eroismo con cui egli, da solo, mosse guerra all’elemento sconfinato della noia che soffocava la città. Senza alcun appoggio, senza alcun riconoscimento da parte nostra, quell’uomo straordinario difese la causa persa della poesia” (I manichini, in Le botteghe color cannella).

Similmente Sartori racconta del padre, ex-repubblichino e scalatore, mette a confronto la vita di lui con “la stagione insanguinata” della propria adolescenza, ripassa al vaglio – con stile asciutto e senza autocompiacimento, ma con ricchezza di sentimenti – la grinta titanica con la quale il vecchio fascista montanaro seppe affrontare la morte per malattia, certo non quella che aveva sperato, non lo schianto eroico in battaglia o scalando una montagna.

C’è molta montagna, nel romanzo di Sartori, perché ribellarsi significa anche salire in alto: mi ha fatto pensare – consentite la citazione – al mio La cavalcata selvaggia, nel quale il protagonista, Gaspare Pribaz, passa dalla condizione di fascista convinto a quella di guerriero disarmato, prigioniero degli inglesi in un campo di concentramento nel Nord dell’India, lunghi anni a fare i conti con i propri errori.

Quella del padre di Sartori è stata una discesa grama e penosa: tocca imparare a scendere, nella vita, come quando si va in montagna. La vita, pare dirci Sartori, è soprattutto contraddizione, compromesso, per quanto ci si sforzi di esprimere la parte migliore di noi stessi il fascismo è quasi una “categoria dell’umano”, come è stato scritto acutamente del romanzo. Un impulso che bisogna tenere a bada, pena ritrovarsi, come avviene ciclicamente, nella tragedia.

Il romanzo parla di guerre, di disastri antropologici. Mette voglia di chiedere, discutere con l’autore del passato che non passa, del terrorismo e della storia che si ripete, davvero uno “scandalo che dura da diecimila anni”, come scrisse Elsa Morante. Del perché, domanda molto attuale, ci si avvicini così stupidamente, con imperdonabile ingenuità ed esaltazione, alla guerra: “Io mi chiedo – dice Achille in Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese – se ancora qualcuno in Tessaglia si ricorda d’allora. E quando da questa guerra torneranno i compagni laggiù, chi passerà su quelle strade, chi saprà che una volta ci fummo anche noi — ed eravamo due ragazzi come adesso ce n’è certo degli altri. Lo sapranno i ragazzi che crescono adesso, che cosa li attende?”.

La consapevolezza giunge sempre dopo, quando la vita chiede il conto con la frusta. Anche Sartori, come tanti di noi, si riscopre simile al genitore dal quale aveva voluto distinguersi. La pena e il dono, l’assoluzione e il delitto sono riconoscersi sempre più simili a loro: “Così son diventato mio padre, ucciso in un sogno precedente”.

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Il Fatto Quotidiano

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