Vivaldo ucciso dai clan di Guardavalle e Cirò perché era un confidente

  • Postato il 7 dicembre 2025
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Vivaldo ucciso dai clan di Guardavalle e Cirò perché era un confidente

Caso risolto 25 anni dopo, il delitto di Vivaldo eseguito dalla cellula al Nord del “locale” di ‘ndrangheta di Cirò su mandato dei Gallace di Guardavalle


CIRÒ MARINA – «Io ho aperto lo sportello. Rosi mi ha spostato con la mano e ha subito sparato. A bruciapelo. Si è messo vicino, erano quasi attaccati… 30, 50 centimetri». Parola del pentito palermitano Emanuele De Castro, gola profonda del “locale” di ‘ndrangheta di Legnano e Lonate Pozzolo, cellula al Nord della cosca Farao Marincola di Cirò. Le sue rivelazioni hanno consentito di riaprire un cold case legato all’uccisione di Nicola Vivaldo, calabrese di Isca sullo Ionio assassinato a Rho il 23 febbraio 2000 perché ritenuto un confidente dei carabinieri.

IL MANDATO

Il mandato di morte sarebbe venuto dalla cosca Gallace, stanziata a Guardavalle, nel Soveratese, ma con ramificazioni in Lazio e Lombardia. I Gallace intendevano punire Vivaldo che, in quanto informatore dei carabinieri, avrebbe contribuito a far scattare alcune operazioni di polizia giudiziaria contro il clan. Per questo avrebbero chiesto aiuto, per l’esecuzione del delitto, al “locale” di ‘ndrangheta di Legnano e Lonate Pozzolo, cellula al Nord della cosca Farao Marincola di Cirò. Il gip distrettuale di Milano, su richiesta della Dda del capoluogo lombardo, ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per sei persone. Cinque sono legate alla ‘ndrangheta.

GLI ARRESTI

Si tratta di Bruno Gallace, 53enne di Guardavalle Vincenzo Gallace (78), di Guardavalle anche lui, esponenti apicali dell’omonimo clan; di Vincenzo Rispoli (63), di Cirò Marina, vertice della cellula criminale cirotana al Nord, del suo braccio destro Massimo Rosi (57), nato a Legnano, e di Stefano Scatolini (58), nato a Legnano e uomo di fiducia di Rosi. A loro si aggiunge il gelese Stefano Sanfilippo (80). Si procede a parte per il pentito. Rosi, come si ricorderà, è l’imputato chiave del processo Hydra, che andrà a sentenza nei prossimi giorni. Sarebbe stato il principale fautore del consorzio delle tre mafie. Prima della svolta affaristica, però, l’ascesa criminale è avvenuta grazie a una lunga scia di sangue.  A cadere, spesso, erano coloro che, negli ambienti criminali, erano sospettati di spifferare agli inquirenti i segreti dei clan.

LE RIVELAZIONI

L’inchiesta è stata riaperta in seguito alle rivelazioni di De Castro, che avrebbe preso parte all’esecuzione del delitto insieme a Rosi e Scatolini. Nel 2019, quando fu sentito la prima volta, non ricordava il nome della vittima. Ma agli inquirenti ha fornito elementi sul luogo, la data e le modalità con cui è stato consumato l’omicidio. Indicazioni che hanno fatto da riscontro ad altri elementi di indagine. In particolare, ha affermato che a sparare sarebbe stato Rosi, il quale avrebbe adoperato una pistola calibro 7.65 sparando “quasi” a bruciapelo.

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LA DINAMICA

Una dinamica che sarebbe confermata dai rilievi eseguiti sul luogo del delitto e nel corso dell’autopsia. Vivaldo fu raggiunto da quattro colpi di pistola al volto mentre era seduto a bordo della propria autovettura ferma nei pressi della sua abitazione. De Castro avrebbe aperto la portiera e Rosi avrebbe fatto fuoco con l’arma munita di silenziatore. I sicari si sarebbero poi allontanati a bordo di una Volkswagen “Golf” condotta da Scatolini. Una prima richiesta di misura cautelare era stata respinta perché a De Castro non erano state mostrate le foto della vittima e del luogo del delitto, che ha subito riconosciuto appena le immagini gli sono state sottoposte in visione. E dopo l’integrazione probatoria chiesta dal gip sono scattati gli arresti.

UCCISO LONTANO DALLA FIGLIA

«Quello è il posto – ha detto il pentito – Abbiamo aspettato che arrivasse la macchina. La macchina era davanti all’ingresso del cancello. Ci siamo messi dietro per bloccarlo, abbiamo aspettato che scendesse la figlia». De Castro aveva preteso che la vittima predestinata non venisse uccisa davanti alla figlia. Il movente? «Era un confidente. E l’omicidio partiva da Guardavalle, dai Gallace». Che l’“ambasciata” di morte venisse dalla Calabria, al pentito lo avrebbe riferito il boss Rispoli, uno dei pezzi grossi della ‘ndrangheta lombarda. Proprio Rispoli gli avrebbe chiesto di far parte del commando. «Fammi ‘sta gentilezza». La presenza di De Castro sarebbe stata utile per assicurarsi che il delitto venisse compiuto senza correre rischi. Prima dell’esecuzione il gruppo criminale ne avrebbe parlato, stando sempre alle dichiarazioni del pentito, con Carmelo Novella, uno dei capi della ‘ndrangheta lombarda. Novella sarebbe stato poi assassinato nel 2008.

SOFFIATA SUL LATITANTE

La cosca di Guardavalle pare ce l’avesse particolarmente con Vivaldo, additato come “responsabile” dell’arresto di alcuni esponenti del clan tra cui il latitante Francesco Aloi, genero del boss Vincenzo Gallace. Aloi fu rintracciato dai carabinieri a Rho, all’interno di un bar riconducibile proprio a Vivaldo. Questi era all’epoca impegnatissimo nel “mercato” dello spaccio di stupefacenti a Rho, dove era attivo un “locale” di ‘ndrangheta al cui vertice era Stefano Sanfilippo. Il “locale” di Rho e quello di Legnano e Lonate Pozzolo, all’epoca capeggiato da Rispoli, erano alleati. Rispoli, in particolare, era da sempre vicino ai Gallace che pertanto chiesero appoggio a lui e a Sanfilippo perché il fatto di sangue sarebbe stato commesso nella zona d’influenza criminale della ‘ndrangheta lombarda.

UCCISO NONOSTANTE COMPARAGGIO

I rapporti stretti tra le cosche di ‘ndrangheta sono avvalorati anche dal fatto che, secondo quanto emerso da una conversazione intercettata, Rosi affermava di aver tenuto nascosto un latitante della cosca di Guardavalle. Il delitto fu compiuto nonostante Vivaldo fosse legato da un rapporto di comparaggio a Sanfilippo, che era padrino di battesimo del figlio della vittima. Nonostante ciò, Rispoli fu incaricato di reclutare gli uomini del suo clan per commettere l’omicidio. Il gruppo di fuoco beccò la vittima mentre stava parcheggiando l’auto sotto casa.

IL PRECEDENTE

C’è un filo rosso sangue con l’uccisione del cirotano Cataldo Aloisio, freddato vicino al cimitero di Legnano nel 2008. Lo rileva anche il gip nel provvedimento restrittivo. Aloisio, confidente dei carabinieri, aveva raccontato che erano stati i Farao-Marincola ad uccidere suo zio Vincenzo Pirillo. A eseguire il delitto Aloisio fu il boss Rispoli con un solo colpo di pistola dopo una trappola organizzata per agganciare la vittima. Due dei leader storici della cosca di Cirò Marina, Cataldo Marincola e Silvio Farao, sono già stati entrambi condannati in via definitiva all’ergastolo, insieme a Rispoli, quali mandanti dell’agguato mortale. La vittima fu uccisa nonostante fosse un genero del boss Giuseppe Farao, che col suo ruolo apicale completa il triumvirato alla guida del clan. È un mondo in cui le “talpe” non sono ammesse.

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