Turchia, Erdogan preferisce risolvere la causa palestinese, ma in casa rimane autoritario e ignora le istanze curde
- Postato il 17 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Recep Tayyip Erdogan dopo aver dato le carte, prima ancora del suo omologo Donald Trump, per arrivare alla firma della tregua tra Hamas e Israele – imponendo che alla cerimonia di Sharm el Sheik non fosse presente alcun rappresentante di Tel Aviv, men che meno il premier Benjamin Netanyahu – si gode il successo internazionale. E per ribadire che è proprio lui, il Sultano, il vero king maker e ammaestratore di Hamas, sta dispiegando nella Striscia decine di specialisti per aiutare a cercare i corpi degli ostaggi israeliani sepolti sotto le montagne di macerie e per prestare soccorso ai gazawi qualora scoppiassero infezioni e problemi sanitari. Insomma a Gaza di fatto comanda Ankara. Dietro le mura domestiche intanto la situazione dei diritti dei cittadini turchi, di tutte le etnie, si sta facendo di giorno in giorno più dura. A partire dalla rivolta di Gezi park nel 2013, il regime politico turco si è gradualmente evoluto o involuto: da quello che Steven Levitsky e Lucan A. Way concettualizzano come “autoritarismo competitivo” a quello che può essere descritto come “autoritarismo puro”.
Il termine “autoritarismo competitivo” di Levitsky e Way si riferisce a regimi che non sono pienamente autoritari, ma nemmeno autenticamente democratici. In questi sistemi, elezioni, partiti di opposizione e media esistono formalmente; tuttavia, il potere dominante sfrutta continuamente questi meccanismi a proprio vantaggio attraverso condizioni diseguali, un uso cioè partigiano delle risorse statali e il controllo sulla magistratura e sulla burocrazia. Il passaggio dall’autoritarismo competitivo a quello puro segna quindi la fase in cui anche questi elementi formali di competizione scompaiono – dove elezioni, opposizione e magistratura esistono solo simbolicamente, sotto il controllo assoluto del potere.
Uno dei punti di svolta più critici di questa trasformazione furono le elezioni generali del 7 giugno 2015, quando il Partito Democratico filo curdo dei Popoli (HDP), sotto la guida congiunta di Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, entrambi curdi, ottenne un successo storico. Quel giorno, la linea politica rappresentata dall’HDP riunì, per la prima volta nella storia della Repubblica, gruppi sociali a lungo isolati l’uno dall’altro, attorno a una visione democratica condivisa. Ciò creò un dinamismo sociale che minacciò direttamente la strategia politica del governo. Mentre il blocco al potere cercava di centralizzare e consolidare ulteriormente il proprio controllo autoritario, tentando persino di neutralizzare le urne attraverso la manipolazione, il successo dell’HDP sotto Demirtaş e Yüksekdağ aprì un clima politico completamente nuovo in Turchia. Per la prima volta dalla fondazione della Repubblica, gruppi sociali a lungo confinati in compartimenti separati iniziarono a dialogare e a deliberare insieme. L’idea che “possiamo risolvere i problemi della Turchia dialogando tra di noi” iniziò a prendere forma.
Proprio mentre la società turca si avvicinava all’idea di coscienza collettiva – di dialogo e risoluzione comune delle divergenze – un ministro del governo dichiarò quella sera: “D’ora in poi, potrete fare solo un film sulla pace”. Con questo, lo Stato dichiarò praticamente guerra alla riconciliazione sociale. La politica di Demirtaş dava priorità alla coesistenza nella diversità – la capacità di parlare a tutti i segmenti della società attorno a principi condivisi e in modo pacifico. Puntava alla felicità, alla pace e alla solidarietà al di là delle differenze. Naturalmente, attribuire tutto questo esclusivamente a Demirtaş sarebbe incompleto; questo ottimismo e questa inclusività erano portatori dell’intero movimento HDP e di tutti coloro che vi hanno contribuito con il loro lavoro e il loro coraggio. In un paese in cui la motivazione del governo è sempre quella di rimanere al potere, persino la capacità di essere felici diventa pericolosa. Sì, la felicità è contagiosa.
Quando questa gioia collettiva si è diffusa in tutti i segmenti della società, un regime che prosperava sulla divisione, la polarizzazione e la paura si è trovato in pericolo. Forse proprio per questo motivo, la notte del 7 giugno 2015 – quando un altro tipo di vita sociale è diventato visibile attraverso la gioia e la solidarietà – l’intera società è stata messa sula lista nera. Ciò che restava delle tendenze, delle pratiche e delle leggi democratiche è stato messo nel congelatore. Esattamente dieci anni fa, il 19 aprile 2016, il presidente Tayyip Erdoğan dichiarò: “Abbiamo messo il processo di pace nel congelatore; ora è il momento delle operazioni”. E aggiunse: “La situazione è chiara. Abbiamo subito gravi perdite. Oltre 40.000 dei nostri cittadini sono caduti vittime del terrorismo curdo negli ultimi 35 anni. Abbiamo provato l’iniziativa democratica, il processo di unità nazionale e fratellanza, ma non ha funzionato. Quindi abbiamo messo il processo di pace nel congelatore”.
Con questa dichiarazione, la Turchia fu nuovamente trascinata in una profonda oscurità. Mentre le armi venivano riprese in mano e la guerra ricominciava, Demirtaş era all’estero. Tra i dibattiti sul suo ritorno, disse a un amico dell’epoca: “Tornerò, e sconterò dieci anni se necessario”. Pochi mesi dopo, fu arrestato e, il 4 novembre 2016, imprigionato nel carcere di Edirne. Sono trascorsi nove anni da quel giorno, da quella prigionia che ogni persona impegnata nella lotta per la democrazia e la libertà in Turchia sapeva avrebbe potuto un giorno capitare anche lei. Cosa è cambiato, dunque, dalla dichiarazione di Erdoğan del 2016: “Abbiamo congelato il processo di pace, ora è il momento delle operazioni”? Cosa lo ha trasformato nel leader che, il 1° ottobre 2024, ha proclamato: “Siamo tutti uno, uniti nel servizio alla nazione e alla patria. Siamo tutti uno e insieme sulla strada verso una Turchia grande e forte”.
E cosa si è veramente “concluso” in quella precedente dichiarazione, quando disse: “Questa volta finirà”? Nello stesso discorso del 2024, Erdoğan aggiunse: “Esprimo anche la mia gratitudine alla delegazione e alla leadership del Partito Democratico, che attraverso la loro posizione costruttiva e i loro sforzi nell’ultimo anno hanno dato un contributo importante alla liberazione della Turchia dal terrorismo. Commemoriamo con pietà il deputato di Istanbul Sırrı Süreyya Önder, che fino al suo ultimo respiro si è dedicato ad abbattere il muro del terrore e a far prevalere la pace e la fratellanza in ogni centimetro del nostro Paese”. Il defunto Sırrı Süreyya Önder era tra i compagni di lotta più stretti di Demirtaş. Tutta la Turchia credeva in quella lotta. Önder entrò in politica nel fiore degli anni, pieno di speranza e convinzione che il suo paese potesse essere liberato attraverso i valori socialisti. Se non fosse tornato alla politica attiva negli ultimi anni della sua vita, probabilmente sarebbe ancora tra noi oggi, a firmare i suoi libri, girare film e organizzare cinema all’aperto per bambini in Anatolia e Mesopotamia.
Ora la società civile laica si domanda: cosa è stato ottenuto dal 19 aprile 2016? Chi considera la realtà del Rojava – la striscia di terra autonoma siriana a maggioranza curda che corre lungo il confine turco e est del fiume Eufrate – una vittoria per tutti coloro che cercano la libertà si rende conto che il tentativo del governo di consolidare un progetto politico di “autoritarismo puro” attraverso il monopolio statale della violenza è alla fine fallito. Se, dall’1 ottobre 2024 esiste una “ragione di Stato” che riconosce la necessità di riconciliarsi con i curdi, allora questa deve essere accompagnata da passi simbolici. Non c’è più nulla da guadagnare con la guerra e il conflitto.
Se la gente è arrivata al punto di riconoscerlo allora ci si deve augurare che i figli dell’Anatolia e della Mesopotamia corrano liberi e crescano parlando le loro lingue Questo significa fare la pace – ed essere liberati attraverso la pace. Se non si abbandona il futuro di un paese ai sogni di un potere autoritario, allora uno dei passi più simbolici che si devono compiere oggi è lasciare che Demirtaş cammini di nuovo liberamente per quelle stesse strade. La liberazione di Demirtaş non è un favore o una questione di negoziazione; è la restituzione di ciò che gli è stato ingiustamente sottratto dal governo. La libertà di Demirtaş, Figen Yüksekdağ, Osman Kavala, Can Atalay e tanti altri prigionieri politici non è altro che la restituzione di diritti illegittimamente confiscati. Ma per Erdogan l’importante è impegnarsi per la liberazione degli ostaggi degli altri paesi: israeliani o palestinesi. Perchè così puó mostrare il proprio potere geopolitico. Come il suo amico Donald.
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