Tosca all’Opera di Roma: finalmente una sintesi maestosa senza bisogno di inventarsi nulla

  • Postato il 16 maggio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Ho avuto il piacere di assistere all’ultimo gruppo di recite di Tosca, al Teatro dell’Opera di Roma, In occasione del 125esimo anniversario del debutto dell’opera avvenuta proprio al Costanzi il 14 gennaio del 1900. Ancora una volta è stato riproposto, saggiamente, l’allestimento originale dell’epoca, con le scene e i costumi di Adolf Hohenstein. La ricostruzione, fedele, è stata svolta da Carlo Savi, per le scene, e Anna Biagiotti, per i costumi. La regia, come nelle diverse riprese messe in scena negli ultimi dieci anni, è stata ancora una volta affidata ad Alessandro Talevi.

Tosca è una delle opere più celebri e belle della storia della musica (e lo dico da non pucciniano), quindi darò per scontato la conoscenza da parte dei lettori della trama, del valore e delle arie più celebri. Ma al di là dei momenti celeberrimi (collegati per il grande pubblico a icone popolari come Maria Callas, Placido Domingo o Luciano Pavarotti), l’opera (spesso accusata di essere troppo cruda e cruenta) trova la sua grandezza proprio nella straordinaria capacità compositiva di restituire la gamma delle emozioni umane: la levità giocosa della protagonista, compagna petulante e gelosa che diventa un’Erinni furente e poi nuovamente un’ingenua sognatrice; il pittore idealista Cavaradossi, amante spensierato che diventa eroe e martire della lealtà; il sadismo di Scarpia, maschera crudele e ipocrita del Potere che spinge il dongiovannismo a tortura psicologica; il candore bacchettone del Sagrestano che diventa, suo malgrado, stampella dell’abuso legalizzato politicamente.

Nell’opera c’è tutta la miseria e la nobiltà umana: la fede e la passione, la fedeltà e il tradimento, la codardia e l’eroismo, la mediocrità e la grandezza, la cattiveria pura e il dono disinteressato, in una scatola cinese di inganni continui, che capovolge la violenza subita in vendetta, la liberazione in tragedia, l’utopia in martirio, il sogno in beffa crudele. Il tutto espresso con una varietà musicale stordente per incanto nelle variazioni, grazie a un dono melodico forse unico, per spontanea creatività, vero segno distintivo del magistero pucciniano.

Dopo gli apprezzati Michele Mariotti e Daniel Oren, per la terza recita la direzione è stata affidata al polso autorevole di direzione di James Conlon. Impeccabile la regia di Alessandro Talevi, il cui dichiarato assunto (nel sempre ben curato libretto di scena) spazza via tante sterili velleità forzatamente “moderne”: “Il punto di partenza di questo allestimento è un esperimento sulla tradizione. La mia regia è basata su questo: seguire tutte le indicazioni di Puccini scritte nella partitura”. Un plauso alla saggezza.

Sulle interpretazioni: commovente Anna Pirozzi come protagonista, degnissima dei precedenti prestigiosi; applausi a scena aperta anche per Luciano Ganci come Cavaradossi; perfettamente in parte Ariunbaatar Ganbaatar, uno Scarpia particolarmente odioso, convincente nella recitazione quanto nel canto.

Consentitemi un esempio: se si va allo stadio a vedere una partita di calcio, al di là dello sviluppo noioso o eccitante dell’incontro, al di là dei diversi schemi o stili di gioco, ciò che si attende è la visione di due squadre di undici giocatori che si sfidano su un campo di circa 105×68 metri, ciascuna con l’obiettivo di segnare più goal dell’altra squadra, ovvero calciando con i piedi un pallone nella porta avversaria. Talvolta, nelle rappresentazioni operistiche degli ultimi anni, la sensazione è stata quella corrispondente al vedere una partita di calcio giocata da 25 giocatori contro tre, con maglie indistinguibili, calciando un pallone triangolare in porte dalle forme sghembe poste ai lati del campo.
Siamo fautori della reinvenzione della tradizione, ma a patto che le innovazioni siano sensate e consapevoli, non casuali bizzarrie, serve delle mode del momento, fastidiose come tic estetici.

Finalmente, in queste occasioni si può vedere l’Opera, nella sua grandezza, nel suo essere sintesi maestosa di innumerevoli elementi: composizione, orchestrazione, allestimento, scenografia, costumi, canto, recitazione, esecuzione, direzione; e quindi risultato di talento, disciplina, passione, sacrificio, studio ossessivo ed esercizio maniacale; un enorme lavoro su di sé, individuale e collettivo, al fine di offrire allo spettatore un concerto di emozioni, avventura, riflessione, commozione, catarsi, estasi. Senza bisogno di inventarsi nulla di strano per fare clamore. Semplicemente, la magia dell’Opera.

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Il Fatto Quotidiano

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