Sui rifiuti tessili l’Italia rischia di tornare indietro

  • Postato il 8 settembre 2025
  • Ambiente
  • Di Il Fatto Quotidiano
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Già dal 2 aprile scorso sul sito del Ministero dell’Ambiente è consultabile lo schema di decreto per l’istituzione della Responsabilità Estesa dei Produttori per il settore tessile e abbigliamento (non solo tessuti e abiti, ma anche calzature, pelletteria, tessile per la casa). È una buona notizia, perché, come riconosciuto dall’Onu, l’impatto dell’industria del fashion è tra i più pesanti: terza per riscaldamento climatico (10% delle emissioni di CO2), seconda per consumi idrici e onerosa per la gestione degli scarti post e pre-consumo.

Dal 2022 in Italia vige l’obbligo di raccolta differenziata di questi prodotti, ma poco è stato fatto per renderla operativa. Dal gennaio 2025, con l’entrata in vigore della normativa EU, non sarà più possibile ignorare la questione. Nel frattempo, gestori industriali e comuni “brancolano nel buio”, senza direttive precise e senza una cultura consolidata sulla gestione di questi flussi, finora affidata soprattutto a cooperative sociali più o meno caritatevoli.

Nel merito, lo schema di provvedimento, che comunque prevede che i produttori debbano farsi carico del finanziamento della raccolta differenziata e del trattamento attraverso un “contributo ambientale” con criteri simili a quelli già applicati dal CONAI per le filiere degli imballaggi, presenta punti lacunosi e a tratti pericolosi. Infatti, mentre la Direttiva UE afferma che l’applicazione della EPR (Extended Producer Responsibility) deve ridurre discariche e inceneritori, valorizzando riuso, riparazione e preparazione per il riutilizzo, la bozza italiana prevede livelli di intercettazione dei flussi destinati a rifiuto del 15% entro il 2026, 25% entro il 2030 e 40% entro il 2035, rimandando il resto all’incenerimento con recupero di energia. Alla faccia dei “modelli circolari” caldeggiati dall’Europa, sembra un anacronistico assist alle lobby della combustione. A parte che Ispra (Agenzia governativa) registrava che nel 2023 la RD del tessile e affini era già al 19%, rispettare l’obiettivo 2026 del 15% significherebbe “tornare indietro” rispetto ai valori già raggiunti nel 2023?

Gli obiettivi rischiano di essere letti come se tutta la differenza rimanente (ancora impropriamente conferita nell’indifferenziato) dovesse diventare “combustibile” per gli inceneritori. Si abbia almeno il buon gusto di precisare che si tratta di obiettivi minimi da superare; altrimenti significa solo non fare la RD e mandare la gran parte del flusso agli inceneritori. Occorre ricordare che la Direttiva Ue e la comunicazione della Commissione non citano obiettivi specifici di intercettazione, rinviando agli obiettivi generali di riciclo, e sottolineano la necessità di passare dai modelli lineari (prendi, usa, getta) alla massima applicazione di riuso, preparazione al riutilizzo e riciclo.

Circa il 60% del flusso post-consumo può andare ai mercatini dell’usato, ma occorre rafforzare la tracciabilità per evitare il dumping internazionale (46% in Africa, 41% in Asia). Il problema è anche rafforzare il riciclo delle componenti naturali (lana, cotone ecc.) di abiti non più riutilizzabili e il loro utilizzo per fini industriali o riempimenti di pezzature di minor pregio. È opportuno puntare su sistemi selettivi di raccolta (come per carta e cartone), separando ciò che è in buone condizioni dal resto, comprese le pezzature non contaminate di minor pregio.

Per la raccolta viene istituito il CORIT (Centro di Coordinamento per il Riciclo del Tessile), che non si configura come i consorzi Conai, ma come un centro non ben definito che rinvia a consorzi territoriali con possibili disparità regionali, rischiando di limitarne l’efficienza. Lo schema dovrebbe rafforzare il contrasto ai prodotti scadenti (fast fashion), prevedere una quota minima di riciclato (circa 60% fibre sintetiche, soprattutto poliestere, responsabile di 40.000 ton/anno di microplastiche) e favorire design riparabile e disassemblabile per migliorare l’immesso al consumo. Infine, considerando che studi europei stimano 20-35 posti di lavoro per ogni mille tonnellate trattate nella preparazione al riutilizzo, occorre coinvolgere distretti industriali come quello di Prato, già attivi con migliaia di addetti nel riuso e nel riciclo, evitando scorciatoie come quelle richiamate a valle del riuso.

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Il Fatto Quotidiano

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