Strage a Rio, un colpo pianificato alla legittimità internazionale di Lula alla vigilia della Cop30

  • Postato il 31 ottobre 2025
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Il governatore dello stato di Rio de Janeiro, Cláudio Castro, esponente della destra bolsonarista, ha definito l’operazione nelle favelas un “successo”, onorando i quattro agenti caduti e celebrando quella che ha descritto come “una grande vittoria contro il narcoterrorismo”. Ma dietro questa retorica di guerra si nasconde un’altra verità: l’ennesimo capitolo di una politica della sicurezza costruita sul sangue nero e sulla paura dei poveri.

Il 28 ottobre per gli abitanti dei complessi di Alemão e Penha, nella zona nord di Rio, è stato caratterizzato dal suono degli elicotteri e delle raffiche d’arma da fuoco: in poche ore, circa 2.500 agenti e una trentina di veicoli blindati hanno trasformato quei quartieri in un teatro di guerra urbana. Il bilancio, secondo le prime stime, supera le 130 vittime e i cento arresti: la più sanguinosa operazione di polizia nello Stato di Rio dal 2007.

La scelta del momento non è casuale. L’operazione arriva in un momento delicato per il governo federale, a poche settimane dall’avvio della Cop30, il vertice sul clima che si terrà in Brasile a novembre 2025 e nel pieno della strategia di riconquista del prestigio internazionale di Lula, che ha costruito gran parte della sua narrativa esterna sulla giustizia climatica e i diritti umani. In questo contesto, un massacro a Rio de Janeiro non è soltanto una tragedia interna, ma un gesto politico che parla al mondo: un modo per minare la credibilità di un presidente che si propone come leader globale progressista, ma che ancora non riesce a spezzare il legame strutturale tra razzismo, povertà e violenza istituzionale. È difficile credere che una simile operazione, pianificata da mesi e messa in scena con un apparato militare imponente, sia avvenuta senza una valutazione del suo impatto simbolico e internazionale.

Il presidente Luiz Inácio Lula da Silva ha dichiarato di non essere stato informato dell’intervento e ha chiesto una risposta coordinata che combatta il narcotraffico “senza mettere a rischio bambini e famiglie innocenti”. Le sue parole cercano di mantenere un difficile equilibrio tra la difesa dell’autorità statale e la condanna della brutalità. Tuttavia, nel Brasile contemporaneo, la questione della sicurezza è divenuta uno dei principali terreni di disputa politica e morale: ogni strage diventa propaganda, ogni morte viene contata e reinterpretata secondo l’ideologia di chi governa. In questa cornice, la destra post-bolsonarista ha fatto del militarismo e dell’idea di “guerra interna” un linguaggio politico. Il messaggio è chiaro: chi promette ordine e mostra forza ottiene consenso, anche a costo di cancellare vite.

Non è la prima volta che lo Stato brasiliano giustifica la violenza con la parola “pacificazione”. Alla vigilia dei Mondiali del 2014, le operazioni militari nelle favelas erano state presentate come un progetto di rinascita sociale e reintegrazione, ma finirono per militarizzare la povertà, trasformando i territori popolari in zone di sorveglianza permanente. Come ricordava Marielle Franco, la sociologa e consigliera comunale assassinata nel 2018 dopo anni di denuncia della brutalità poliziesca: “Chiamano pacificazione ciò che è, in realtà, controllo armato della povertà.” Quella logica non è mai davvero tramontata. Dall’agosto 2020, da quando Castro ha assunto la guida dello Stato di Rio, quasi 1.900 persone sono state uccise in operazioni di polizia, una media di trenta al mese. Numeri che smentiscono la retorica della sicurezza e confermano una strategia di governo fondata sulla gestione della morte come strumento politico, un disciplinamento dei corpi e dei territori che si estende ben oltre il perimetro delle favelas.

Secondo l’avvocata per i diritti umani Amarilis Costa, “la criminalità è il pretesto, non la causa. Il corpo nero è il crimine stesso.” E in questa frase si condensa l’intero paradosso brasiliano: un Paese che si proclama multietnico e democratico, ma che continua a esercitare la violenza istituzionale come forma di controllo razziale. Il falso dilemma tra sicurezza e diritti umani è diventato una trappola discorsiva: chi chiede giustizia viene accusato di essere complice del crimine, chi difende la vita viene accusato di debolezza.

Rio de Janeiro oggi è più di una città ferita: è un laboratorio politico di un modello che pretende di governare l’insicurezza con la violenza. Un modello che trova legittimità in una società diseguale e in un immaginario collettivo che continua a vedere nelle favelas il luogo dell’anomalia, della minaccia e della colpa. Finché la sicurezza verrà misurata in termini di morti e la giustizia in quantità di armi dispiegate, il Brasile continuerà a oscillare tra la promessa di Lula e la pratica di Castro: tra la parola democrazia e la realtà della necropolitica. E a ogni nuova operazione, il Paese sembrerà chiedersi ancora da che parte stare — tra la vita e il consenso, tra la memoria e la paura, tra la speranza di un futuro giusto e l’abitudine a chiamare “successo” una strage.

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Il Fatto Quotidiano

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