Storia segreta del sanatorio alpino di Robilante. Un lab creativo tra cura e nobiltà dimenticata
- Postato il 12 settembre 2025
- Architettura
- Di Artribune
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«Quel mondo di ammalati è chiuso in sé e tenacemente avviluppante.
È una specie di surrogato della vita che in un tempo relativamente
breve estrania del tutto i giovani dalla vita reale, attiva…»
Thomas Mann, La montagna incantata, 1924
Fino alla fine dell’Ottocento, Robilante – piccolo centro in provincia di Cuneo – non contava dimore nobiliari. Eppure, quel toponimo viveva da secoli nel cognome di una tra le più antiche casate sabaude: i Nicolis di Robilant. La villa oggi nota come “Castello di Robilante” nacque da un curioso scatto d’orgoglio. Nel 1896 Edmondo Nicolis sposò Valentina Mocenigo, nobildonna veneziana abituata agli sfarzi di Palazzo Mocenigo, che lo punzecchiò sul fatto di non possedere a Robilante che una cascina. Punto nell’onore, Edmondo fece edificare su una collina panoramica una villa imponente in stile francese: gesto d’affermazione aristocratica e insieme di romanticismo privato. Non propriamente un castello, ma quel soprannome prese piede e resistette, eco duratura di quell’orgoglio.
La villa, il feudo e l’orgoglio nobiliare: la storia del “Castello” di Robilante
Paradossalmente, la villa fu abitata solo saltuariamente dai Nicolis, che preferivano altre dimore. Alla fine degli Anni Venti, travolti da difficoltà economiche, i conti optarono per la vendita riservata della residenza a una Società Anonima composta da medici e finanzieri, decisi a trasformarla in un sanatorio per tubercolotici benestanti. Quando la notizia trapelò, scoppiò il caos: la struttura sanitaria, a soli 360 metri dal centro, minava le ambizioni turistiche di Robilante, allora in cerca di affermazione come località di villeggiatura. Il podestà Mario Fulcheri protestò, temendo ripercussioni sulla salute pubblica e sull’equità sociale. Ma le opposizioni non bastarono: il sanatorio aprì nel 1928, trasformando la villa in un complesso all’avanguardia. I saloni divennero spazi comuni, le terrazze solarium per l’elioterapia, le camere furono attrezzate con ogni comfort disponibile all’epoca. Dal 1933, sotto la direzione del giovane medico Giovanni Capitolo, il sanatorio si ampliò con padiglioni moderni, come il “B” e il razionalista “C”, ancora visibili. Le terrazze della villa furono chiuse in logge per la terapia, rendendo il complesso sempre più funzionale. Ma il rapporto con la comunità si incrinò: tra il 1938 e il 1946 le tensioni culminarono con la proposta del Comune di recintare l’area per isolarla. Così, il “Castello” nato da un orgoglio aristocratico divenne il simbolo di una difficile convivenza tra élite e paese.






![G. Benzi, [Robilante], s.d. (coll. priv.) И G. Olivero](https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2025/09/g-benzi-robilante-sd-coll-priv-g-olivero-768x637.jpg)


Il sanatorio di Robilante: l’ascesa di un salotto artistico tra le montagne
La quotidianità al sanatorio di Robilante si consumava in una sospensione irreale: ore lente sulle verande assolate, letture silenziose, conversazioni sussurrate, passeggiate tra i pini. La tubercolosi, che colpiva spesso i giovani, imponeva immobilità e lasciava lo spirito sospeso tra speranza e consapevolezza della fine. Eppure, proprio in quel luogo fragile, grazie alla visione del direttore Giovanni Capitolo, nacque un sorprendente salotto artistico d’altura. Medico tisiologo e mecenate, Capitolo incoraggiò i pazienti-artisti a continuare a creare durante il ricovero, fornendo materiali di recupero — tendoni usati come tele, lastre radiografiche come supporti — e allestendo atelier nei locali dell’Istituto. Commissionò opere per sé e per gli spazi comuni, trasformando il sanatorio in un luogo attraversato da arte e cura. Vi sorse un cenacolo anomalo, frequentato da Ego Bianchi, Giulio Benzi, Fillia (Luigi Colombo), Maddalena “Dada” Rolandone, Luigi Valerisce, Francesco Franco: alcuni vi sostarono mesi, altri anni, lasciando testimonianze intense al confine tra malattia e creazione.
Il pittore Ego Bianchi e la stagione artistica robilantese
Ego Bianchi, già assistente di Felice Casorati all’Albertina di Torino, fu tra i protagonisti della stagione artistica robilantese. Tornò più volte all’Istituto dai primi Anni Quaranta, dedicandosi alla pittura paesaggistica e a un diario spirituale e poetico. Intrecciò un intenso dialogo con Ernesto Caballo e trovò nella malattia una via interiore: “Benedico il mio male che mi obbliga alla montagna che ho imparato ad amare”, scriveva. Nel 1941 tenne una mostra personale nel sanatorio, con testo critico di Michelangelo Berra. Dipingeva en plein air la valle, come in Tetto Barberis (1944), dal tocco tardo-impressionista, premiata con l’Albarello e oggi conservato al Museo Mallé di Dronero. In un’altra tela ritrasse Robilante innevata vista da sud: sul retro, una foto lo ritrae mentre dipinge sul posto, in grembiule bianco e basco nero. Nel 1945 ritrasse una giovane paziente deceduta in un’opera struggente, cui il compagno di degenza Giuseppe Costagli — futuro sindaco di Robilante — dedicò una poesia. Per Bianchi la pittura si fondeva con la vita, come scriveva nel diario il 30 luglio 1946: “Ho aiutato a legare i covoni e nell’intervallo ho cercato il taglio del mio quadro… stavo componendo con le mie mani gli elementi della mia tela”. Negli Anni Cinquanta espose a Parigi, alla Galleria Charpentier, con ritratti ispirati alla vita nel sanatorio: volti fragili, intensi, dignitosi.

Cura, cultura e dignità nell’istituto di Robilante
Giulio Benzi trovò a Robilante un luogo di rigenerazione. Allievo e poi docente all’Albertina per volere di Casorati, dovette ritirarsi dall’insegnamento a causa della malattia. In sanatorio, la pittura divenne introspezione: paesaggi notturni, nature morte, scene intime. A differenza della visione simbolica di Bianchi, Benzi cercava la concretezza della realtà. Berra scriveva: “Vi sono artisti che la fantasia spinge verso il meraviglioso, altri a cui non sta a cuore che la realtà. Ego Bianchi rientrava nel primo caso e Giulio Benzi nel secondo”. Nel 1950 dipinse Frida, ritratto della moglie a un tavolo, circondata dagli strumenti del lavoro, e Lo studio a Robilante, con scaffali pieni di tele e nature morte. Nel 1951 ritrasse una suora dell’Istituto, assorta nel lavoro, e vari paesaggi: cortili innevati, alberi spogli, Robilante nel verde. In Il passaggio a livello (del 1953, Museo Luigi Mallé, comodato Collezione Berra) la sbarra ferroviaria simboleggiava la soglia tra malattia e vita. Robilante diventava un microcosmo affettivo, sospeso tra memoria e realtà. Pur con salute precaria, Benzi espose a Torino, Cuneo, Marsiglia. Morì a Robilante nel 1955, lasciando la moglie Federica “Frida” Bozic e due figli. Il suo nome resta legato a un’arte marginale ma intensa, nata nel silenzio di un sanatorio alpino, dove la fragilità si fece forma e testimonianza.
Vita segreta del sanatorio di Robilante: riviste, ironia e un direttore da romanzo
Negli Anni Quaranta e Cinquanta, all’Istituto Climatico di Robilante la malattia non spegneva il desiderio di vivere e creare. In un clima fatto di affetto e ironia, i pazienti diedero vita a una sorprendente microeditoria interna, con riviste satiriche e omaggi poetici, spesso per ricorrenze come l’onomastico del direttore Giovanni Capitolo. La prima pubblicazione documentata, La Fionda (1944), mescolava linguaggio medioevale e umorismo affettuoso: “Li Cavalieri con le Castellane de lo Maniero de Roburando…” si leggeva in apertura. Otto anni dopo, Arce Capitolina (1952), con una splendida copertina di Benzi, trasformava il sanatorio in un’arce romana in miniatura, regno simbolico di Capitolo. Non mancavano interviste scherzose (“Risposi sì al telefono e il giorno dopo ero tisiologo”) e mappe fantastiche dell’Istituto come piccolo mondo fiabesco, ricco di avventura e amore. Il dottor Capitolo — medico, mecenate e futuro sindaco — fu l’anima di questo microcosmo, capace di coniugare cura, cultura e dignità. Mentre le mura del sanatorio si animavano di arte, poesia e celebrazioni, a Robilante si rispondeva alla paura della tubercolosi con umorismo e una comunità fragile ma creativa, nata tra le montagne.
Giulia Viale
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