Per un’architettura di connessione. Il Padiglione Arabia Saudita a Venezia
- Postato il 13 settembre 2025
- Architettura
- Di Artribune
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Progettato dallo studio saudita Syn Architects, formato dalle architette Sara Alissa e Nojoud Alsudairi, e curato da Beatrice Leanza, il Padiglione Arabia Saudita alla 19. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia vuole essere una base di partenza per un approccio alternativo all’architettura, capace di incentivare nuove letture critiche dell’ambiente costruito. Dal titolo The Um Slaim School: An Architecture of Connection, si articola secondo una “struttura tripartita”: oltre alla mostra veneziana, include infatti un programma di sessioni laboratoriali e pubbliche (contestualmente alla Biennale) e due pubblicazioni, concepite per dare applicazione all’iniziativa oltre la kermesse lagunare. Ne abbiamo discusso con Syn Architects, già artefici dell’iniziativa collaborativa Um Slaim Collective.
Le architette di Syn Architects raccontano il Padiglione Arabia Saudita
Come avete concepito il progetto?
È nato da riflessioni e conversazioni tra noi, co-fondatrici di Syn Architects e dell’Um Slaim Collective: Quest’ultimo gruppo riunisce collaboratori provenienti da diversi ambiti – architetti, artisti, fotografi, videomaker – con l’obiettivo di creare narrazioni spaziali che si affianchino a quelle dominanti, spesso consumate in contesti come l’Arabia Saudita e l’area del Golfo, caratterizzati da sviluppi urbani rapidi e talvolta invasivi. L’idea, fin dall’inizio, è stata quella di usare la piattaforma della Biennale e le opportunità offerte da eventi culturali di questa portata per dare continuità a un progetto che potesse estendersi oltre la mostra stessa. Il Padiglione è concepito come un archivio vivente: un’installazione che ospita materiali di ricerca portati avanti da Syn Architects e dall’Um Slaim Collective, focalizzati sull’evoluzione del centro storico di Riyadh e sull’architettura vernacolare Najdi (legata alle costruzioni tradizionali di fango).
Quale tipo di ricerca si colloca alla base del progetto?
Il progetto non presenta solo opere compiute, ovvero progetti architettonici concepiti con il Shamalat Cultural Centre (situato alla periferia di Diriyah, nel nord di Riyad, è stato progettato dall’artista Maha Malluh con Syn Architects, n.d.R.), ma espone processi, metodologie e approcci alternativi per studiare lo spazio e le comunità che lo abitano. Questi sono presentati attraverso video, progetti di site-writing che hanno preso la forma di libri e saggi illustrati, eco-poetry, sperimentazioni con materiali come terra, argilla, sabbia, fibre naturali e tessuti, ma anche attraverso l’organizzazione di programmi di indagine urbana attraverso lo Um Slaim Lab.
Di cosa si tratta?
È uno spazio situato nell’omonimo distretto della città di Riyadh e fondato da Syn Architects, che propone talk, conferenze, lezioni, mostre, workshop ed esplorazioni attraverso camminate guidate nei quartieri del centro storico della capitale, o progetti di archivi come la piattaforma Saudi Architecture, dedicata allo studio del patrimonio modernista nel Paese. In senso più ampio, il progetto rappresenta un’investigazione di come nuove generazioni di professionisti del Sud Globale stiano approcciando l’architettura come pratica sociale, fondata sulla ricerca, sullo studio e sulla partecipazione.
Il Padiglione dell’Arabia Saudita alla Biennale Architettura 2025
Un elemento centrale del Padiglione è la parte cartografica. Perché?
Rappresenta il cuore della ricerca dell’Um Slaim Collective. Mostriamo nove sezioni della città di Riyadh dove l’architettura Najdi sta scomparendo sotto la pressione dello sviluppo urbano. L’esercizio di mappatura diventa uno strumento di partenza per studiare e immaginare nuovi modi di leggere il contesto urbano, cosa in esso sia rimasto del passato, e cosa questo possa ancora insegnarci oggi.
Dal punto di vista tecnico, la vostra ricerca si è focalizzata anche sui materiali?
Sì, la mostra esplora anche l’ecologia materiale del contesto, con installazioni, fotografie e oggetti che riflettono l’identità locale e le pratiche costruttive vernacolari. I materiali utilizzati, i modelli architettonici, gli oggetti raccolti nei mercati del quartiere Um Slaim e le fotografie contribuiscono a un discorso che mette in relazione memoria, storia, costruzione e ambiente. Il Padiglione diventa così un “archivio vivente”, un luogo in cui il materiale e l’immateriale dialogano: mappe ricamate, suoni urbani, archivi visivi e pratiche costruttive locali si intrecciano per proporre una riflessione più ampia sull’architettura come mezzo culturale e sociale.
Ovvero?
Qui la ricerca lavora non solo sulle metodologie e dunque sui codici costruttivi dell’architettura, ma affronta la maniera in cui il tessuto urbano, naturale e sociale siano, insieme, l’ambito di ricerca della pratica spaziale. Dunque come l’architettura si attivi nel riconnettere il passato culturale ed eco-sociale e il presente, per costruire collettivamente futuri alternativi che si affianchino alle narrative di crescita accelerata.





L’architettura dell’Arabia Saudita tra sapere locale, partecipazione e rapida trasformazione
L’Arabia Saudita infatti sta vivendo uno sviluppo urbanistico di grande impatto. Pensate che il Padiglione possa essere un esempio o un suggerimento per il futuro?
Certamente. Proprio perché al centro del Padiglione vi è l’idea di collaborazione e partecipazione, il progetto diventa un esempio di come sia possibile costruire nuovi modelli di pratica architettonica, più inclusivi e critici. Ci si interroga su chi siano gli attori dello sviluppo urbano e si propone di dare spazio a nuove voci e approcci. Attraverso il programma pubblico, abbiamo voluto coinvolgere una rete di professionisti, non solo sauditi ma provenienti da tutto il Sud Globale, che riflettono su tematiche condivise: dall’archiviazione alla pedagogia alternativa, dall’ecologia dei materiali alla costruzione di spazi collettivi. In questo senso, il Padiglione funge da piattaforma generativa, un catalizzatore di idee e metodologie, un esempio concreto di come si possa ripensare la città in modo più equo e sostenibile.
Come immaginate le città saudite nei prossimi anni?
Pensiamo a città in cui la partecipazione delle comunità locali diventi centrale nei processi di progettazione. Città in cui la conoscenza locale – quella prodotta direttamente da chi vive i luoghi – guidi le trasformazioni urbane. Il nostro auspicio è che l’architettura in Arabia Saudita possa evolversi come pratica civica, capace di generare impatto sociale e ambientale positivo. In quest’ottica, il Padiglione e il programma che lo accompagna mirano a costruire una nuova iniziativa pedagogica, radicata nel contesto locale ma aperta a connessioni transnazionali. Vogliamo contribuire a una conversazione globale in cui l’architettura non sia più solo costruzione, ma anche strumento di mediazione culturale, cura del territorio e coesione sociale.
Niccolò Lucarelli
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L’articolo "Per un’architettura di connessione. Il Padiglione Arabia Saudita a Venezia " è apparso per la prima volta su Artribune®.