Stefano Boeri non è il male assoluto. Perché nel ‘sistema Milano’ io difendo l’architetto

  • Postato il 30 luglio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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A leggere la cronaca di queste ultime settimane, sembra che l’origine di tutti i mali di Milano sia l’architetto Stefano Boeri, l’inventore della formula del Bosco Verticale. Ormai è quasi un automatismo: basta digitare “Boeri” insieme a “Milano” per scatenare l’ira degli algoritmi. L’ostilità verso Boeri è diventata un fenomeno algoritmico prima ancora che architettonico: dai commenti agli articoli, viene indicato come responsabile unico di ogni deriva urbana. È etichettato come gentrificatore seriale, inventore del “falso sostenibile”, cementificatore, responsabile della svendita della città e dell’estetizzazione del potere, a scapito di una vera visione urbana. Oltre Milano, gli viene attribuita perfino la responsabilità per i palazzi vuoti e le strade incompiute a Tirana, dove ha firmato il progetto del quartiere Tirana Riverside con SON-Group.

Eppure — piccolo dettaglio — Boeri non è responsabile della politica urbanistica milanese. Non ha mai redatto un PGT (Piano di Governo del Territorio), non ha gestito alienazioni di edilizia pubblica, né diretto Piani Integrati di Intervento o fissato affitti da 3.000 euro in via Vigevano. È stato per un breve periodo assessore alla Cultura (non all’Urbanistica) con l’ex sindaco Pisapia. Oggi è presidente della Triennale, un’istituzione culturale — non immobiliare. Nel racconto collettivo, però, Boeri è diventato l’emblema di una città che cresce verso l’alto dimenticando chi resta in basso. Lui che, alla Triennale, ha dedicato un’intera esposizione al tema delle disuguaglianze sociali; (Inequalities); lui che ha ideato la panchina “per chi ha una casa e per chi non ce l’ha” (Milano Design Week 2022) — discutibile quanto si vuole, ma in controtendenza rispetto alla dilagante “architettura ostile” — è finito alla gogna per una frase estrapolata da un’intercettazione sugli homeless: “Più li trattiamo con i guanti, più ne arrivano”.

Ma davvero Stefano Boeri è il male assoluto? Per me no. Chi conosce la macchina pubblica sa bene che né l’urbanistica né le politiche abitative dipendono da un architetto — per quanto visibile, influente, autorevole. Boeri ha proposto visioni e firmato progetti, criticabili e discutibili, certo. Ma non ha deciso alienazioni, fissato affitti, né gestito i piani che hanno trasformato Milano in un mercato per pochi. Quelle scelte, e responsabilità, spettano ad altri: politici, amministratori, investitori. Eppure, mentre il sindaco Sala incassa la solidarietà del Pd, Boeri — ex assessore alla Cultura, non all’Urbanistica — resta solo. Paradossalmente, molti di quelli che oggi lo additano sono gli stessi che, dieci anni fa, lo celebravano. Nel 2014 il Bosco Verticale era il simbolo — probabilmente in un eccesso di entusiasmo — di una Milano “green e coraggiosa”: premiato dal CTBUH come “grattacielo più bello del mondo”, elogiato come rivoluzione verde e modello esportabile. Oggi è diventato, per molti, il simbolo di una distopia gentrificata: conseguenza della sua sovraesposizione, ma anche di una narrazione semplificata.

In un Paese che fatica ad analizzare la complessità, serve sempre un capro espiatorio. Boeri è perfetto: mediaticamente esposto, abile nel vendere idee e nel trasformarle in storytelling. Ma la realtà che colpisce Milano va ben oltre le narrazioni e le personalizzazioni, ed è confermata dai numeri: il 70% dei giovani under 35 non può permettersi di vivere da solo (Nomisma, 2024); il social housing copre meno del 10% della domanda reale. Secondo Confcommercio, negli ultimi cinque anni ha chiuso un negozio su cinque; 90.000 studenti cercano casa, ma solo il 15% trova risposta; metà del patrimonio di edilizia popolare resta vuoto. Eppure, invece di fare i conti con le trasformazioni profonde del “modello Milano”, si evita di affrontare la questione centrale: la città ha adottato il capitale come unica grammatica dello sviluppo. Una scelta che ha generato ricchezza, sì, ma al prezzo dell’espulsione dei ceti medio-bassi, senza un progetto politico capace di governare davvero il cambiamento. Ristabilire un equilibrio efficace, soprattutto nelle sfere economica, sociale e normativa, è oggi una responsabilità che grava sul sindaco Sala, non su Boeri.

Difendere Boeri non significa assolverlo — eventuali responsabilità, se ci sono, spettano alla magistratura — ma è un esercizio di lucidità. Significa riconoscere che la città è il risultato di scelte collettive. Se Milano è diventata un laboratorio di disuguaglianze, non è per colpa di singole figure o di architetture iconiche, ma di un sistema. Le cause della marginalizzazione abitativa e della frattura tra centro e periferie sono strutturali, profonde, spesso ignorate.

Serve una nuova grammatica per il futuro di Milano: più equa e consapevole. Come minimo. Ma anche più coraggiosa, più politica, più capace di interrogarsi, davvero, su che cosa significhi — oggi — costruire la città.

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Il Fatto Quotidiano

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