Quando la fame trasformava gli ebrei in “musulmani”

  • Postato il 29 luglio 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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“Nei lager, quando fumavano i camini dei forni crematori, le parole “musulmano” (muzułman, in polacco; Muselmann, in tedesco) venivano adoperate quotidianamente dai prigionieri e non suscitavano né stupore né domande circa il loro significato”. Sta scritto nell’introduzione dei medici polacchi Zdzisław Jan Ryn e Stanisław Kłodziński al loro Al confine tra la vita e la morte – Uno studio sul fenomeno del “musulmano” nel campo di concentramento, uscito in Polonia nel 1983 e pubblicato quest’anno in lingua italiana (Quodilibet, 2025), come il Fatto ha annunciato a febbraio.

Chi erano i musulmani nei campi di concentramento? “Quei prigionieri che, sottoposti a privazioni estreme e a continue vessazioni, avevano raggiunto una tale grado di debilitazione fisica e psichica da risultare prossimi al decesso”, spiega il curatore all’edizione italiana, Matteo Bozzon. Il volume raccoglie parte dei testi e delle testimonianze uscite dagli anni 60 sulla più antica rivista di medicina in lingua polacca, Przegląd Lekarski – Oświęcim, frutto di un questionario inviato a 300 sopravvissuti ai lager, per lo più ad Auschwitz, dove anche Kłodziński fu internato.

“Il termine ‘musulmano’ fu presumibilmente portato con sé nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dai kapò che erano stati in precedenza in altri lager, per indicare i prigionieri apatici, indolenti, ai quali il modo in cui apparivano era indifferente”, spiega una delle testimonianze. Si riferiva principalmente alla “postura fisica“: “Solevano avvolgere il capo in stracci e assumere una postura ricurva per difendersi dal freddo, richiamando involontariamente immagini stereotipate di devoti dell’Islam in preghiera”, spiega Bozzon. Non c’erano altre parole da usare: “In mancanza di un’espressione diversa – racconta un’altra sopravvissuta di Birkenau –, ero solita dire “poveri cristi”, ma quest’espressione suscitava la disapprovazione di chi mi stava intorno, fu subito respinta. “Come ‘poveri cristi’? Qui lo siamo tutti: loro sono solo musulmani e basta” – questo era all’incirca il tenore dei rimproveri che ricevevo”. Perché, le veniva spiegato, “un povero cristo era un essere umano, ma un “musulmano” era qualcuno la cui umanità si era volatilizzata“. Perché alla postura fisica corrispondeva “una struttura psichica ben precisa”.

Nel tentativo di spiegare quella che nei lager era un’epidemia – “i casi di cannibalismo (più precisamente: di necrofagia) registrati a Ebensee sono la migliore prova delle cause della musulmanità (Jósef Ciepłi) – gli autori fanno riferimento innanzitutto alla “malattia della fame“, coerentemente con lo schema mentale utilizzato dai detenuti dei campi: “scarsità di cibo-fame-musulmanità”. Del resto, nelle guerre come nei lager, “le restrizioni alimentari o la completa privazione di cibo erano di solito i mezzi più elementari ed economici per mandare in rovina a poco a poco un popolo soggiogato“, scrivono Jan Ryn e Kłodziński. Ancora: “La fame fu senza dubbio anche una delle esperienze più terribili e brutali del lager. La sofferenza psichica a essa associata non era paragonabile a nient’altro”. Un medico, anch’egli prigioniero nei campi, raccontò che “si potevano vedere musulmani che, poco prima di morire, stringevano in mano convulsamente una fetta di pane, come se qualcuno volesse portargliela via; poco dopo stramazzavano a terra morti”. Secondo alcuni, ad Auschwitz-Birkenau i musulmani arrivarono a rappresentare l’80 per cento della popolazione detenuta.

Tra coloro che si “musulmanizzavano” più in fretta c’erano sicuramente i bambini. “Non solo non sorridevano, ma pure il pianto era raro tra loro”, dice una testimonianza. “Quei bambini attendevano rassegnati, senza interesse alcuno, in quella anticamera della morte”. Durante la seconda guerra mondiale morirono 6.028.000 di polacchi, per lo più in seguito alle “liquidazioni dei ghetti” e alle cosiddette “operazioni di pacificazione”. Di quei polacchi, 2,7 milioni erano ebrei. Molti di loro morirono come “musulmani”. A detta di molti sopravvissuti, il musulmano era esattamente ciò in cui chi deteneva il potere intendeva trasformare gli uomini rinchiusi nei lager: “Uccidere era troppo facile”.

Nella premessa all’edizione tedesca del 1987, il chirurgo e co-fondatore della rivista polacca, Jósef Bogusz, scrisse a nome della redazione: “Riteniamo che i lavori e le memorie pubblicati […] rappresenteranno un monito eterno“.

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Il Fatto Quotidiano

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