Stabat Mater di Castellucci: un’intuizione commovente

  • Postato il 31 ottobre 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Dal 28 al 31 ottobre nella Basilica di Santa Maria Aracoeli a Roma si è tenuto un evento musicale straordinario del Teatro dell’Opera di Roma: lo Stabat Mater, con musiche di Giovanni Battista Pergolesi e Giacinto Scelsi.

“Dal Barocco al Novecento”: scelta peculiare ma centrata, quella di incastonare la gemma di Pergolesi fra due composizioni di Scelsi (Quattro pezzi per Orchestra del ‘59 e Three Latin Prayers del ‘70): figura straordinaria di compositore autodidatta, che avventurosamente ha attraversato i grandi fermenti culturali del Novecento, dall’Europa dei Surrealisti e della rivoluzione dodecafonica di Arnold Schönberg fino all’incontro con i maestri (veri e falsi) della spiritualità indiana; nella sua dimora romana, ora sede della Fondazione Scelsi, con “la terrazza più bella di Roma” a pochi passi dall’Arco di Giano, era possibile incontrare alcuni dei più grandi ricercatori musicali del Dopoguerra, per primo John Cage.

I quattro pezzi che aprono la serata (Ciascuno per una nota sola) sono applicazione di una sua citazione programmatica: “Ribattendo a lungo una nota essa diventa grande, così grande che si sente sempre più armonia ed essa vi si ingrandisce al suo interno”.

L’ossessione straziante e meditativa delle ripetizioni sonore di Scelsi prepara all’ascolto alla sublime preghiera (più precisamente una sequenza poetica) attribuita a Jacopone da Todi, messa in musica da Pergolesi: il “selvaggio” misticismo tipico del poeta francescano viene trasfigurato nella grazia soprannaturale del compositore di Jesi, uno dei più grandi talenti della musica italiana stroncato tragicamente dalla tubercolosi ad appena 26 anni.

Chi mi segue su queste colonne ben sa la mia allergia alle versioni “moderne” delle opere classiche: immaginate i miei timori, considerando la solennità ieratica della composizione e del luogo. Devo ammettere come, sebbene preferisca ascoltare ad occhi chiusi i capolavori dell’arte sacra, la versione scenica proposta abbia offerto almeno un’intuizione commovente. Quando all’inizio l’orchestra ha attraversato la lunga pedana in legno disposta lungo la navata centrale, luogo dell’azione teatrale, in tenuta militare, come un esercito occupante, ho francamente temuto il peggio, data l’allusione fin troppo didascalica all’attualità: a ben rifletterci, però, si è trattato di un riferimento pertinente e drammatico alla storia stessa della basilica, trasformata nel 1797 dalle milizie napoleoniche in un luogo a metà tra un bivacco e una stalla.

Nel libretto di scena, molto interessante e curato, si possono trovare delle interviste rivelatrici al direttore Michele Mariotti, al regista Romeo Castellucci e al drammaturgo Christian Longchamp. Molto bello il dialogo tra gli ultimi due, intitolato La carezza e la spada, in particolare ho molto apprezzato il richiamo di Castellucci (Leone d’Oro alla carriera della Biennale di Venezia) a Pavel Florenskij e al sommo maestro dell’iconografia russa: “La libertà dell’artista, quella di un genio come Andrej Rublëv per esempio, consiste nel forzare una forma ma dall’interno del canone”. A cura di Castellucci anche le scene, i costumi e le luci con la collaborazione artistica di Maxi Menja Lehmann, Paola Villani (collaboratrice alla scenografia), Clara Rosina Strasser (collaboratrice ai costumi), Benedikt Zehm (collaboratore alle luci) e Aurélien Dougé (coordinatore dei movimenti).

Dal punto di vista dell’esecuzione, apprezzabile la “freddezza” ricercata da Mariotti nel contrastare l’emozione intollerabile del dolore primordiale della Madre, vivo apprezzamento per il soprano Emőke Baráth e il mezzosoprano Sara Mingardo, sottoposte a un duplice tour de force, ovvero interpretare uno dei brani più noti della musica sacra all’interno di una complessa azione scenica.

Arriviamo dunque alla drammaturgia: se da un lato ho trovato complicata e distraente la metafora delle antenne del radar militare che diventano le lance che trafiggono il cuore di Maria, dall’altro ho trovato meravigliosamente commovente l’idea finale. Un’intuizione colma di stupore mistico: bambini in meditazione (mi sembrava di rivivere le mie esperienze col progetto Inner Peace nelle scuole di tutto il mondo), le cui mani aperte divenivano il supporto per la Deposizione del Cristo. La Resurrezione è un bimbo che si libera dal sudario e si reca a giocare con un pallone sottobraccio. L’innocenza come fondamento del Sacro: spesso, l’intuizione più geniale è quella più semplice.

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Il Fatto Quotidiano

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