Perché dopo il cessate il fuoco a Gaza l’allegria scemerà rapidamente

  • Postato il 17 ottobre 2025
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di Claudia De Martino

Dopo il giubilo e l’euforia per il cessate-il-fuoco di lunedì, il tanto atteso ritorno degli ostaggi e la liberazione dei 1968 prigionieri palestinesi, l’allegria scemerà rapidamente. Gaza si ritroverà un campo sterminato di macerie, un luogo invivibile, malsano e pieno di mine inesplose, come denunciato da tutti gli ultimi rapporti dell’Onu. Quello che non avranno finito di devastare gli israeliani, lo farà Hamas con i suoi regolamenti di conti interni tra bande rivali, in un Paese senza ormai legge che attende l’arrivo di un “consiglio di pace” composto da tecnocrati stranieri e businessman internazionali come proprio nuovo governo.

La Cisgiordania, per cui la “guerra” a bassa intensità non è mai finita, continuerà ad essere erosa pezzo per pezzo attraverso la continua costruzione di nuovi insediamenti ormai del tutto sdoganati dall’Amministrazione delle colonie, creata dal Ministro Smotrich nel febbraio 2023. Il segnale che Netanyahu ha inviato al fronte interno, non partecipando al vertice di pace a Sharm el-Sheikh con il mondo arabo, è infatti chiaro: Israele è stato costretto a fermare la guerra, ma non ha cambiato idea sul futuro dei Palestinesi, anzi: poiché Gaza è stata sottratta alla colonizzazione, il governo troverà compensazione sulla sponda protesa verso il Giordano, su cui il patto di Trump volutamente tace.

Non sappiamo quanto durerà l’attuale cessate-il-fuoco, che riposa molto sulla capacità del mondo arabo, e in particolare del Golfo, della Turchia e dell’Egitto, di offrire un’alternativa credibile ad Hamas. Cosa non facile, dato che Israele si ostina a boicottare la parte ragionevole della rappresentanza politica palestinese, l’Autorità Nazionale Palestinese di Abu Mazen, e i prigionieri di al-Fatah, tra cui Marwan Barghouti, scientemente esclusi dalla liberazione perché rappresentanti di quella parte della Palestina che crede ancora nella soluzione a due stati e che, fornendo un’alternativa alla lotta armata, potrebbe contribuire a traghettare il proprio popolo verso una soluzione politica del conflitto.

La realtà è che, come hanno sempre lamentato gli israeliani dal fallimento degli Accordi di Camp David (2000) ad oggi, manca un partner per la pace, ma questa volta dal lato israeliano. L’attuale governo, se non si andrà subito a nuove elezioni, è complice di Hamas, la cui presa autoritaria sulla Striscia ha ampiamente favorito prima del 7 ottobre penalizzando con ogni mezzo, economico e politico, l’Anp. È responsabile del genocidio di almeno 40mila civili sulle 67mila persone uccise, di cui molte indiscriminatamente, ma altre volontariamente, come i casi di alcuni giornalisti, reporter e artisti che denunciavano la disumanità della guerra con la loro testimonianza attestano. Ancora, almeno dal 1996, quando lo stesso premier Netanyahu, ancora oggi al potere, decise di affossare gli Accordi di Oslo, è responsabile della crescita esponenziale delle colonie nei Territori Occupati e dell’asfissia della vita politica palestinese che ha in parte contribuito a produrre il 7 ottobre.

In questo fosco scenario, e finché gli israeliani non decideranno, tramite elezioni anticipate, di non voler mettere fine solo alla guerra per riavere i propri ostaggi, ma anche di volere per sé un futuro diverso e ritenere responsabile il governo Netanyahu del degrado in cui versa la loro vita politica, è necessario che l’Europa, che nulla o tardivamente ha agito per contenere il genocidio, mantenga e anzi accresca la distanza con Israele: perché adesso che il paese è di nuovo in pace, non vi è più alcuna giustificazione per la colonizzazione.

Netanyahu e i suoi ministri devono sentirsi in pericolo se metteranno piede nell’area Schengen, anche se l’Ungheria e forse altri paesi codardi, tra cui l’Italia, non dovessero applicare le regole comunitarie, perché il mandato di arresto emesso nei suoi confronti dalla Corte penale internazionale è ancora valido e non cadrà in prescrizione a seguito di questo cessate il fuoco. Ugualmente, l’Europa deve mantenere in piedi le sanzioni ai ministri di estrema destra Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich e, se possibile, estenderle a tutto l’attuale governo, che ha sempre votato compattamente dietro le misure prese.

La Commissione europea deve proseguire sulla via della sospensione dell’accordo di libero scambio con Israele, cercando di sfruttare il peso delle sue relazioni commerciali preferenziali con Israele. Deve iniziare a premere, in tutti i consessi diplomatici internazionali, per la liberazione di Marwan Barghouti, che potrebbe cambiare l’esito delle prossime elezioni palestinesi e riunificare i due fronti scomposti – quello integralista religioso della cosiddetta “resistenza” e quello laico e razionale – ma ormai macchiato di autoritarismo – in cui la Palestina versa da ormai quasi vent’anni.

Infine, l’Europa deve insistere con tutto il proprio peso politico che la pace promessa nella “fase due” non si limiti al piano di Trump, ma possa includere anche la Cisgiordania, e lavorare affinché le misure di deradicalizzazione presenti nel piano si applichino non solo ai libri di scuola dell’Unrwa ma anche a quelli di Israele, che chiamano i Territori Occupati “Giudea e Samaria” e inneggiano al sangue versato dai soldati come se fossero tutti martiri, e non anche complici di una guerra che ha ucciso molti civili, e affermano nel nome di un presunto dio un legame esclusivo con una terra che è storicamente almeno di due popoli.

Così facendo, i governi e la Commissione europea non farebbero che interpretare al meglio i sentimenti della maggioranza dei cittadini europei, che restano amici di tutte le democrazie – siano esse ebraiche, arabe o a preferenza laiche – ma non degli opposti fanatismi e revisionismi, quello coloniale dell’attuale Israele e quello fondamentalista di Hamas.

I segnali che arrivano già in questi primi giorni – con la sospensione del voto sull’esclusione d’Israele dall’Eurovision, scelta peraltro del tutto simbolica – vanno nel senso di una normalizzazione, quando il 7 ottobre dovrebbe invece averci insegnato che la violenza, il terrorismo e la guerra sono sempre l’unica risposta all’assenza di prospettive politiche.

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