Per una leadership collettiva e inclusiva: come fondarla sulle parti migliori di noi stessi

  • Postato il 20 agosto 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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Roma, 1977. C’erano le Brigate Rosse, avevo 17 anni e una coscienza politica appesantita dagli anni di piombo. Vedevo un mondo diverso, di autogestione, di impegno e di comunità. Una visione molto diversa da quella antagonista dei ‘cattivi ragazzi’ di Autonomia operaia e dei fascisti.

Fu in questo scenario pesante – soprattutto per un 17enne forse un po’ troppo responsabile che pensava più a nuovi mondi che a nuove ragazze – che mi accadde la prima un’esperienza ‘off the record’ che mi avrebbe segnato a fondo. Avevo fatto un’ora di ginnastica a scuola, ed ero profondamente rilassato, nella mia tuta da ginnastica blu a righine bianche. A casa avevamo un boschetto di querce al lato del viale, ne fui come attratto e mi misi a guardarlo senza concentrarmi su nulla in particolare. Mai fatto prima… All’improvviso la visione sfumò – come quando una persona molto miope si toglie gli occhiali e le forme e i confini perdono definizione. Anche io e i mei confini stavano sfumando, eppure non ero spaventato, solo ne avevo consapevolezza.

Vi assicuro che non mi ero fatto di nessuna sostanza, non mi apparteneva.

In pochi secondi tutte le forme presero a vibrare, e gli alberi erano come sbocchi di vapore, o fiamme luminose, che provenivano dal terreno, mantenendo la loro forma, ma molto confusa in questo affresco affascinante e vibrante più che un quadro di Van Gogh. Tutto nasceva – io compreso – a partire dalla terra, come se fosse essa la base generativa. La sensazione era magnifica e profondamente “ecologica”, nessun senso di separazione dal resto, scomparsa di un qualsiasi ‘io’, unità del tutto nella vibrazione anche se in forme diverse, l’insight che quella era la realtà, non quella statica e fatta di confini e divisioni vista dai nostri occhi ed occhiali in uno stato mentale ordinario.

Durò poco, ma per sempre. Oggi ripenso con tenerezza a quel ragazzino diciassettenne, che dopo quelli politico ed esistenziale ora aveva un altro livello esperienziale (eco-mistico!) da integrare nella sua identità in formazione.

Alcuni di voi si chiederanno che c’entra questa esperienza così privata (e fino ad oggi raccontata solo a pochissimi amici dei miei gruppi di meditazione) con la leadership – soprattutto visto che di base sono uno psicologo sociale sperimentale e la studio ed insegno da un punto di vista scientifico. C’entra eccome, perché in un momento di contrapposizione violenta sarebbe stata una ‘sliding door’ che mi avrebbe ‘obbligato’ a un cammino etico-politico mai antagonistico e molto più ‘inclusivo” e centrato sull’amore e la collaborazione piuttosto che sulla diversità, la competizione e la contrapposizione.

Un’esperienza fondativa che mi aiutò a concepire l’altro (anche avversario) meno ‘altro’, a riuscire a parlare sempre con tutti (molteplici forme di un unico) con interesse, “dialogare con” piuttosto che “strillare contro”, a non concepire il ‘bianco e nero’ (confini definiti) e a non sopportare chi nel dibattito si arroga a portavoce di verità.

Fatto sta che di li a poco tempo, ancora ispirato da quell’esperienza, ci fu un secondo evento “fondativo”. Feci il mio primo discorso in assemblea, non previsto né preparato di fronte a 500 compagni. Ricordo che rimasi e lasciai tutti stupefatti parlando a braccio 15 minuti del nuovo mondo autogestito e vibrante di collaborazione e solidarietà, che vedevo e che facevo toccare. L’intervento si svolse in un silenzio assoluto e densissimo in un’unione quasi più spirituale che politica con tutti quei quei ragazzi che come me sognavano un futuro diverso e che in quel momento lo stavano vedendo e toccando.

Queste esperienze mi avviarono a diventare un giovane leader studentesco, e poi all’interesse profondo per l’ecologia (ancora oggi collaboro con il Wwf come consigliere nazionale e con Legambiente).
O a tessere e mettere insieme con fiducia reciproca tante anime diverse del terzo settore all’interno di una sensibilità e progettualità comune che prima della diversità ha il bene comune come orizzonte di senso.

A scegliere Nelson Mandela come ispirazione non solo politica ma anche spirituale, ed uno stile di leadership consapevole, inclusivo e generativo: che se non lo è, rischia di produrre confini e divisioni, rancore e mancanza di collaborazione.

Siamo in un momento storico in cui è difficile far finta di niente. Credo che tutti dobbiamo fare più che una semplice scelta di responsabilità. Essere, tutti, agenti di cambiamento, anche nel più piccolo dei contesti. Quindi, fare una scelta di leadership – di voler influenzare al massimo l’ambiente intorno, dalla famiglia, agli amici, al condominio, al quartiere, alla città – rispetto ai valori in cui crediamo e al futuro che immaginiamo. Passare dall’ “io” al “noi”, stringere legami ed interconnessioni mediante il supporto reciproco, ma anche occasioni ludiche e leggere.

E poggiare la nostra leadership sul meglio di noi stessi, sui nostri valori e sulle nostre esperienze più belle e profonde di connessione e di amore, come quella che vi ho confidato.

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Il Fatto Quotidiano

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