Per difendere la psicoanalisi non bisogna mai sfuggire alle critiche
- Postato il 21 agosto 2025
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di Maurizio Montanari, psicoanalista
Uno psicoanalista, a fronte degli argomenti critici sollevati dal libro Freud: illusioni e delusioni della dottoressa Risoldi nei confronti della psicoanalisi, deve saper rispondere senza isterismi, consapevole che la disciplina freudiana si è alquanto adattata ai bisogni e alle sofferenze del contemporaneo, ed è ormai lontana da una rappresentazione un po’ retrò che a volte se ne vuole dare.
Mi piace citare a questo proposito la celeberrima serie tv ‘In treatment’, con Sergio Castellitto. I pazienti del dottor Mari costituiscono un fotogramma abbastanza fedele della realtà di un analista che ogni giorno accoglie una sofferenza diffusa, un molteplice confuso e disorientato che travalica il censo, la provenienza, e altre appartenenze più o meno riconosciute. Non mente il film quando mostra un reale sporco, disordinato, alcolista e tossicomane, che non poco confligge con una certa idea, purtroppo ancora in voga, della pratica clinica come balocco profumato o disciplina asettica e d’élite. Soggetti sfilacciati, disabbonati dall’inconscio, portatori di una identità non sempre ben definita (‘mi dica di cosa soffro dottore’), non del tutto inseriti nel legame sociale, non completamente dentro alla famiglia, non convinti. Un po’ sofferenti, un po’ gaudenti nel loro soffrire. Un poco boh. Questi sono sempre di più i nostri pazienti, oggi, segno evidente dell’adattarsi della psicoanalisi al contemporaneo.
Ciò detto, perché sempre più spesso la psicoanalisi finisce sul banco degli imputati e gli psicoanalisti vengono accusati di trasformarsi in “guru” in cerca di adepti da irregimentare in ambienti settari? Dopo il j’accuse di M. Onfray in Crepuscolo di un idolo, sono arrivati il feroce e unilaterale Il libro nero della psicoanalisi, Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicoanalisi, fino all’ottimo Al di là delle intenzioni. Etica e analisi di Luigi Zoja.
La questione chiama in causa direttamente la formazione e l’etica dello psicoanalista, elementi che devono essere garantiti dalle associazioni analitiche le quali, formando e monitorando i loro appartenenti e aprendo ponti sul mondo e colloquiando con le altre scienze, possono immunizzare da qualsiasi deriva settaria. Non dobbiamo stracciarci le vesti come Caifa, ma ragionarci sopra. Chi si sdraia oggi su un lettino analitico non ha precise garanzie di terzietà né protezione dagli errori: questo è un vulnus dell’instrumentum analitico. Per questo è necessario che l’analista abbia esplorato a fondo le proprie zone d’ombra — quelle che conducono all’errore — e si assuma la responsabilità del proprio ruolo.
Lacan lo dice chiaramente: “Se si trascura quell’angolo dell’inconscio dell’analista, ne derivano vere e proprie zone cieche, con conseguenze anche gravi: misconoscimenti, interventi mancati o inopportuni, persino errori.” Ecco perché uno psicoanalista deve essere parte di una rete che lo osservi, lo contenga e, se necessario, lo corregga, secondo la massima di Lacan: “L’analista deve pagare qualcosa per reggere la sua funzione. Paga in parola, paga con la sua persona. E deve pagare con un giudizio sulla sua azione. È il minimo che si possa pretendere”.
I commenti in rete al libro rimandano ad un’altra criticità: la poca luce che filtra, a volte, su ciò che accade all’interno del setting terapeutico. Ove sono possibili errori, sfondamenti controtransferali. Mi spiego meglio: ogni buon analista sa, o dovrebbe sapere, che nel momento in cui la macchina transferale si mette in moto, egli diventa lo schermo di proiezione di scene passate alle quali viene chiamato a partecipare direttamente. Ma sa al contempo che non dovrebbe commettere l’errore di calarsi direttamente in loco appuntandosi sul petto le effigi che il paziente vuole che egli indossi. La funzione dell’analista consiste nel non scambiarsi per quello che il soggetto vuole, riconoscere la propria posizione transeunte — quella di oggetto forato dalle dinamiche del paziente — rendendosi terzo, celandosi in una zona d’ombra. E’ pertanto il lavoro su se stessi portato al vaglio di un terzo che determina la capacità di un analista di garantire una posizione transeunte, cioè di terzietà, che tenga fuori dal setting pulsioni padronali, derive narcisiste o autoritarie.
Nelle mie diverse esperienze analitiche mi è toccato in sorte di fare brutti incontri, con esiti per me dannosi e causa di profondo malessere. Io ho incontrato la cattiva psicoanalisi. E’ solo dopo aver conosciuto ciò che la dottoressa illustra nel suo libro che mi sono messo alla ricerca della buona pratica analitica fondando su di essa il mestiere che oggi faccio. Un lavoro che consiste nell’avere a che fare ogni giorno con la sofferenza, la speranza, la disillusione. Con i sogni in frantumi delle persone che bussano al mio studio. Un luogo ove si depositano frammenti di umanità che consentono di osservare il mondo da un’angolatura particolare. Il quotidiano visto dal retrobottega dell’analista, sfrondato dagli orpelli dell’apparenza, svela zone grigie nelle quali luci e ombre si fondono. Dove pulsioni profonde e verità intrecciano le loro strade. Dove il lecito si mescola al fuori legge, il piacere al dolore. Osservare il mondo dalla stanza dell’analista significa riconoscere che aveva ragione Céline quando affermava che ‘Tutto quello che è interessante accade nell’ombra, davvero. Non si sa nulla della vera storia degli uomini’.
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