Da ‘strettese’ ho sempre sognato tante porte di accesso alla mia Sicilia: il progetto per questo Ponte è uno spreco

  • Postato il 23 agosto 2025
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di Daniela Lino

Sono nata a Reggio Calabria e vissuta per la maggior parte della mia vita a Messina, però mi piace definirmi “strettese” perché quando penso alle mie radici le sento proprio affondare nelle profondità delle acque dello Stretto, tra i gorghi e le maree, le leggende e i miti, le feluche e la risacca dei due mari – Ionio e Tirreno – che si incontrano, si scontrano e danzano mescolando continuamente correnti fredde e calde, rivendicando la propria identità, che di fatto svanisce tra le sfumature dell’azzurro.

La mia stessa nascita è stata un ponte tra Calabria e Sicilia, tra la mia mamma di Scilla e mio papà dell’entroterra palermitano. Da bambina le navi Caronte-Tourist erano i mezzi che mi permettevano di raggiungere i miei parenti sulla costa calabrese. Da studentessa attraversavo lo Stretto quasi ogni giorno con l’aliscafo per seguire le lezioni all’Università, fare revisioni, sostenere esami alla Facoltà di Architettura. Anche il giorno della mia laurea, momento importantissimo nella mia vita, ho attraversato lo Stretto.

Da cittadina umbra d’adozione – vivo a Terni da dodici anni – attraverso lo Stretto 3-4 volte l’anno, quando torno nella mia isola, talvolta in auto ma più spesso a piedi, con le valigie in mano, dopo che il treno ad alta velocità mi lascia a Villa San Giovanni. Un breve tratto da percorrere a piedi, infatti, collega la stazione ferroviaria al pontile di approdo degli aliscafi; poi venti minuti di mare e tocco terra sulla mia isola.

Non so quante volte negli anni, mentre facevo ore di fila per prendere il traghetto, oppure quando per un soffio perdevo l’aliscafo, ho pensato tra me e me “se ci fosse il Ponte…!”; quante volte continuo ancora ad arrabbiarmi per il costo spropositato del traghettamento delle auto, che non prevede alcuno sconto per i residenti. Non so quante volte – quando c’è burrasca – penso che quella striscia di mare può diventare una barriera, un ostacolo, un nemico che ti priva della libertà di andare “al di là”.

Da architetto potrei anche pensare che un’opera come il Ponte sullo Stretto possa apportare migliorie in termini di flussi, possa – forse – decongestionare gli imbuti che si creano a Messina e a Villa San Giovanni nei periodi festivi, ma rimane un grande nodo irrisolto.

Messina è la “porta” della Sicilia, è la città in cui “si passa”, la si attraversa, come lo Stretto, per raggiungere tutto il resto della Sicilia. Lo si nota anche con i crocieristi che sbarcano ogni giorno e, appena scesi dalle navi, salgono sui pullman per raggiungere Taormina o altre località. Più di ogni altra città siciliana Messina risente la non-appartenenza fisica al continente perché ce l’ha sempre di fronte, come un anelito costante, un richiamo magnetico, una proiezione, un riflesso. Dà le spalle alle altre otto province, isole nell’isola, ciascuna con una forte identità, con proprie tradizioni,
dialetti, storia, cultura, ma che non comunicano tra loro.

Così vedo e vivo la mia Sicilia: come un arcipelago di nove isole, circondate dalla terraferma anziché dal mare. E non c’è scambio, non c’è confronto, né crescita reciproca. Perché per andare ad Agrigento a vedere la casa di Pirandello e la Valle dei Templi, o a Piazza Armerina i mosaici, o i templi di Segesta e Selinunte in auto si impiega lo stesso tempo che si impiegherebbe per arrivare a Roma; in treno ancora di più.

Da Messina la penisola è vicina tre chilometri, ma si percepisce lontanissima, in realtà. E non è questione di una striscia di terra mancante, di un cerotto asfaltato su due lembi di terra. La Sicilia nasce e rimarrà sempre isola, e non sarà un ponte a farla sentire più Italia o Europa. Quella striscia di mare è la linfa della sua vera essenza, è il suo valore aggiunto.

Al di là delle considerazioni di carattere ambientale e di impatto violento su un paesaggio unico al mondo e su tutti gli ecosistemi presenti, il Ponte rafforzerebbe ancora di più per Messina la valenza di “città di passaggio”. Tuttavia, mettendo da parte il mio approccio campanilistico personale e tralasciando il mio scetticismo sul completamento dell’opera e il mio risentimento sulla mancanza di un referendum preventivo, voglio allargare lo sguardo sull’intera isola.

E sogno in primis una rete infrastrutturale fitta, funzionante e funzionale, un potenziamento delle fonti di approvvigionamento idrico, la cui carenza in molte zone è davvero inammissibile e una rete ferroviaria ad alta velocità che colleghi in maniera efficiente le diverse parti della Sicilia. Sogno il potenziamento di aeroporti e collegamenti marittimi, cosicché la Sicilia abbia tante “porte”, non una sola, e possa salvaguardare la sua identità multiforme e la parte migliore della sua natura isolana, ma non isolata.

Il Ponte, così com’è pensato, non è soltanto utopistico, ma è un caronte della globalizzazione, una cattedrale nel deserto, uno spreco di risorse e di energie che potrebbero essere investite in una reale valorizzazione del territorio e delle singole province.

Non uno di cemento e acciaio, ma tanti ponti, virtuali e visionari, dovrebbero dare alla Sicilia la possibilità di esprimere tutte le sue potenzialità, la sua forza, la sua ricchezza, quella che forse ancora spaventa il Nord dal lontano 1861; quella Sicilia crudelmente ed intenzionalmente trasformata in strascico, ma che potrebbe, invece, diventare il vero locomotore dell’Italia, invertendo il senso di marcia dal sud al nord!

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Il Fatto Quotidiano

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