Oggi le carceri italiane sono sempre più chiuse: il caso di Genova è un esempio delle conseguenze

  • Postato il 23 giugno 2025
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  • Di Il Fatto Quotidiano
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La città di Genova si stringe attorno al carcere cittadino e affronta con forza il drammatico episodio accaduto all’istituto penale Marassi all’inizio di questo mese. Nelle scorse ore, su iniziativa del Garante regionale dei diritti dei detenuti, oltre 200 persone tra operatori sociali, avvocati, medici, insegnanti, semplici cittadini hanno firmato un appello per farsi carico di un percorso di accompagnamento per il giovane seviziato per giorni nel buio di quelle mura. Un ragazzino appena 18enne entrato in carcere in attesa di giudizio sarebbe stato sequestrato da quattro detenuti per due giorni, tra il 1° e il 3 giugno, e sottoposto a brutali sevizie che andrebbero dalla violenza fisica a quella sessuale, dalle ustioni con olio bollente ai tatuaggi sulla faccia.

La dinamica dei fatti si chiarirà con le indagini, ma certo è che il ragazzo è oggi traumatizzato e che il cappellano del carcere ha affermato di non aver mai visto nulla di simile in vent’anni di servizio. “Non possiamo lasciarlo solo”, dice oggi la città di Genova attraverso l’appello promosso dal Garante. E chiede che le istituzioni si facciano carico del percorso di riabilitazione fisica e psicologica del giovane, oggi agli arresti domiciliari in una struttura esterna protetta.

I fatti, come detto, si chiariranno (auspicabilmente al più presto). Ma possiamo già da ora interrogarci su alcune questioni che riguardano in generale lo stato delle nostre carceri. La vita interna è oggi allo sbando e l’episodio genovese ce lo dimostra in tutta la sua crudezza. “Il carcere trasparente” era il titolo del primo Rapporto in assoluto che l’associazione Antigone pubblicò all’inizio delle attività del proprio Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Italia. In quel titolo era racchiusa una grande parte della nostra filosofia: è la trasparenza delle carceri che previene gli abusi, le violenze dell’istituzione ma anche le distorsioni violente della vita quotidiana che possono arrivare a creare dinamiche come quella tragica avvenuta nella casa circondariale genovese.

Trasparenza significa tante cose diverse. Un carcere trasparente è un carcere che non ha paura di farsi attraversare dal territorio esterno, un carcere in cui la città entra con vigore, e non invece dove si ritrova solamente a firmare appelli una volta che il danno è oramai avvenuto. Oggi le carceri italiane sono sempre più chiuse. Si cancellano attività, si ostacolano percorsi.

Ma trasparenza significa anche che, al proprio interno, la vita carceraria deve fondarsi sulla conoscenza delle dinamiche sociali – di quella società complessa che la comunità penitenziaria costituisce – e non solamente sull’interposizione di barriere fisiche. I muri non costruiscono sicurezza. Gli organismi internazionali parlano di sorveglianza dinamica per riferirsi a quell’approccio alla sicurezza penitenziaria che la fonda sulla conoscenza delle interazioni, sulla prossimità, sul vivere i reparti detentivi. Se i poliziotti e gli educatori conoscono le dinamiche interne, se il direttore non governa il carcere dalla propria scrivania ma piuttosto scende nelle sezioni, avranno allora ben più possibilità di riuscire a intercettare e a prevenire episodi come quello di Marassi.

Un’autentica sicurezza non si può costruire solamente con cancelli e sbarre. Bisogna conoscere le relazioni che si creano nella popolazione detenuta. Oggi invece il modello carcerario imposto è poco trasparente e chiuso, tragicamente chiuso. La carcerazione si concretizza in chiusura in celle affollate e insane, ozio forzato, vita senza stimoli. Ciò è sempre l’anticamera del degrado. Fatti come quelli che sarebbero avvenuti a Genova non devono sorprenderci ma devono indignarci. Serve prevenirli con un approccio educativo, conoscitivo e non chiudendo le persone in celle senza spazio come fossero bestie.

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Il Fatto Quotidiano

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