Non vedo indignazione per il riarmo: mi sembra che le emozioni prevalenti fra i giovani siano tre

  • Postato il 16 maggio 2025
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Come mai di fronte alla prospettiva di trasferire enormi risorse, prese soprattutto a discapito dei poveri, verso le armi non emerge una diffusa indignazione? Come può succedere che l’affermazione perentoria sulla ineluttabilità di una guerra entro i prossimi dieci anni contro una potenza nucleare dotata di 6mila testate nucleari non provochi un sussulto nella popolazione?

Questa domanda mi pare centrale in questa fase della vita del nostro paese e della sempre incompiuta Unione europea. Si dirà che singole personalità, partiti politici o organizzazioni tutti i giorni ne parlano e esprimono la loro avversione. E’ vero però che agli occhi dei più queste posizioni, definite pacifiste o “pacifinte”, sembrano fare parte del piccolo cabotaggio politico e politicante per ottenere qualche voto in più.

L’aumento dei voti nelle ultime elezioni per molti leader politici con posizioni contrarie a queste smanie belliciste, da Trump a Farage, da Le Pen e Melechon a Fico, da Weidel a Simion, vengono derubricate a espressioni di estremisti asserviti al nemico. Per lo più si ritiene, forse in alcuni casi a ragione, che siano politici che non credono realmente alla possibilità di una convivenza pacifica ma piuttosto a furbastri che utilizzano il sentimento contrario alla guerra serpeggiante nella popolazione per ottenere un momentaneo successo.

Quando ero ragazzo, subito dopo il ’68, i giovani avevano il desiderio e l’illusione di cambiare il mondo. Ora sembrano prevalere il distacco e il disincanto. Si ritiene che in questa bolgia di messaggi mediatici una manifestazione contro il riarmo non verrebbe neppure percepita.

Ho provato come medico e psicologo a riflettere ascoltando il vissuto di alcuni pazienti giovani. Mi pare che emergano tre elementi che sottopongo ai lettori per sentirne il parere.

Individualismo. In una società massificante e massificata la consapevolezza di essere uno su otto miliardi ha provocato come reazione il chiudersi nel proprio particolare. La vita di ognuno di noi scorre su un binario individuale che non sembra mai intersecarsi con ciò che avviene a livello macrosociale. L’idea della guerra, pur prospettata come vicina dai politici che governano l’Europa, risulta lontana ai giovani.

I leader dei vari paesi appaiono come degli attori di teatro che recitano il loro copione ma che, finita la rappresentazione, torneranno a gestire il piccolo cabotaggio nazionale. Non si crede a quello che affermano, con petto in fuori e sicumera, in quanto appaiono come guitti che rappresentano un personaggio in una finzione propinata alle masse per intrattenerli.

Rassegnazione. Cosa ci possiamo fare? In una società liquida sembra che le onde verso destra o sinistra, verso la pace o la guerra, verso l’ateismo o la fede vadano e vengano senza che nessuno possa farci granché. Ora è il momento dell’onda verso destra, della smania per gli armamenti e per il nuovo papa. Prevale l’idea di lasciare scorrere in attesa che l’onda di reflusso faccia il suo corso.

Desiderio. Il desiderio dell’uomo occidentale non è mai stato così tanto manipolato. Milioni di spot pubblicitari sono la zavorra che ogni nato sarà costretto a subire per arrivare all’età della ragione. Tutti a dire che per essere felici occorre questo e quello. Capirete che un giovane sia disorientato e arrivi nell’età dell’adolescenza, che verrà artificialmente prolungata per renderlo un buon consumatore, senza uno straccio di idea su ciò che veramente gli serve.

La guerra inconsciamente rappresenta un potente stimolo al cambiamento del mondo. Potrà essere inconsciamente quasi desiderata, anche se coscientemente osteggiata. La guerra offre un senso, che il consumismo ha distrutto, al desiderio del giovane perché definisce dei valori per cui vale la pena di vivere e morire. Che poi questi valori siano ambigui, costruiti dai mezzi di comunicazione, per propagandare la smania a spendere tutto il denaro disponibile per armarsi, il giovane lo scoprirà troppo tardi.

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Il Fatto Quotidiano

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