Non si diventa campioni senza una comunità. Un allenatore lussemburghese mi spiega perché
- Postato il 9 marzo 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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di Marco Pozzi
Si lodano i campioni, simili ad eroi. Ma nessuno diventa un campione da solo, poiché richiede tempo, energia, costanza, e tante relazioni con altre persone, da amici e famigliari, a dirigenti e allenatori, che in modi diversi partecipano alla crescita dell’atleta. Si diventa campioni dentro una società; e per capire come organizzare la nostra società è sempre utile capire come hanno agito altri prima noi, e imparare, dalle esperienze migliori. Ne ho parlato con Vincent Gevrey, preparatore atletico, allenatore, animatore sportivo nell’amministrazione di Ville d’Esch-sur-Alzette, seconda città del Lussemburgo, Capitale europea della cultura nel 2022.
Mi ha raccontato del programma sportivo cittadino (“Escher Sportförderprogramm”), che vuole incoraggiare i cittadini a praticare sport: per lo sviluppo personale, per la salute fisica e mentale, per la coesione sociale. Lo sport dev’essere accessibile a tutti, indipendentemente dall’età, dal sesso, dalle capacità fisiche e dalle origini culturali. I filoni di sviluppo sono: lo sport nelle scuole (dai tre anni di età), lo sport di massa, lo sport associativo (sostenere i club), lo sport d’alto livello, l’uguaglianza fra uomo e donna. Ciò mira ad aumentare il benessere di cittadini, a creare inclusione e reciproco rispetto attraverso eventi specifici ma soprattutto nella quotidianità.
L’amministrazione pubblica agisce sia nella messa a disposizione delle infrastrutture sia agevolando la collaborazione fra i tanti attori del territorio: squadre professionistiche, associazioni di utilità sociale, scuole. Maestri, allenatori, atleti, formatori, educatori, nelle rispettive competenze, ricoprono vari ruoli, e integrandosi vicendevolmente raggiungono bambini, ragazzi, adulti, anziani. È una sorta di staffetta collettiva che va oltre lo sport.
In quest’ottica è naturale convergere agli sport inclusivi, cioè nella rielaborazione condivisa delle discipline adattandole a esigenze e vocazioni degli individui, i quali sono convolti nell’immersione nel gioco sia come atleta sia come progettista del gioco medesimo, discutendone con altri: lo sport diventa un’esperienza totale per lo sviluppo delle abilità sociali e relazionali, accanto a quelle atletiche.
Non ci si limita alla sola competizione, dunque, ma la condivisione dello sforzo diventa mezzo per costruire le identità individuali dentro la comunità. Partecipare a una squadra significa essere coinvolti nel processo di allenamento e nella definizione delle più adeguate regole operative comuni.
Lo sport inclusivo è così laboratorio sociale, che prende la forma del baskin – il basket inclusivo –, della scherma adattata, o delle evoluzioni nel ciclismo, nell’atletica, nel nuoto etc. Ogni sport è territorio per migliorare sé stessi costruendo interazioni dove ciascuno, nel proprio ruolo, possa esprimere al meglio le proprie abilità, a seconda delle disabilità, certificate o no da un certificato medico. Ogni cittadino è coinvolto: sport è politica, è partecipazione.
Due obiezioni il lettore starà pensando: sì, vabbè, ma è il Lussemburgo, mica l’Italia; sì, vabbè, ma quello non è vero sport, è un’altra cosa. Sarà, però vale comunque prendere in considerazione ciò che è diverso da qui, e che per risorse e organizzazione sembra un’utopia idonea a redimere i nostri lamenti consueti.
Inoltre, apre una più generale riflessione. Anche per gli atleti più competitivi lavorare con varie disabilità consente di affrontare aspetti del gioco che altrimenti rimerebbero inesplorati. Serve a crescere come atleti professionisti, specie nei settori giovanili, quando mente e corpo sono prensili, adattissimi all’assorbimento.
Partecipare a uno sport non è solo giocarlo, secondo le regole previste, ma è occasione di riflessione sullo sport medesimo, per “giocarlo” nella mente, esplorarlo con maggiore ampiezza. Non solo per adattarsi al gioco, ma riflettere su come adattare il gioco alle persone, ad altri diversi da sé. È un buon esercizio d’autoanalisi, prove d’identità.
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