Noi fan lo sapevamo: il film su Springsteen non è altro che la storia di un padre e un figlio
- Postato il 27 ottobre 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Springsteen. Liberami dal nulla è un film che disattende le aspettative di chi si immaginava la classica biografia da rock star — fatta di successi, hit immortali e stadi in delirio infiammati dal protagonista della storia, Bruce Springsteen. Lo sceneggiatore sceglie, invece, di scavare nel cuore dell’uomo e dell’artista, concentrandosi su un periodo preciso e cruciale della sua vita, quello del tormentato rapporto col padre.
È, infatti, il padre — o ciò che ne resta, i bagliori della sua presenza — a costituire la trama centrale dell’opera.
C’è un giovane dal talento innato, osannato dalle folle, acclamato dalla critica e amato dalla gente, che si danna nel ricordo dell’infanzia, nei suoi chiaroscuri, là dove il padre era duro, violento, totalizzante. Ubriaco ed anaffettivo. Ombre che mordono e velano la fama della giovane promessa, inspiegabilmente incapace di godersi il successo che il mondo gli tributava. Successo e fama che non attenuano ma amplificano nei suoi testi i ricordi cupi di quelle serate passate tra urla, una madre che affronta il padre in preda ai fumi dell’alcol, fino al suo arresto e al suo ricovero.
E’ proprio quell’assenza di una figura paterna che Bruce cercherà di colmare, rattoppandola con l’album Nebraska: intimo, cupo, depressivo, eco sporca di nodi irrisolti e di figure mancanti.
Quando Springsteen raggiunge la fama, tutto il suo essere sembra poggiare su un punto cieco, che di colpo cede. È il tempo della depressione, della ricerca di un aiuto terapeutico, di quel buio e di quelle notti interminabili che minacciavano di divorarlo. Ne tenta la fuga affidandosi al conforto degli amici e del produttore, John Landau, che al telefono gli dice: “Io questo non lo posso gestire, ti serve un professionista”. E glielo trova. Il giovane Bruce ricuce le ferite attraverso la musica, su cui costruisce un’esistenza ricca e fortunata, ma che — come ricordano i titoli di coda — non ha mai smesso di fare i conti col male oscuro.
Per contrasto, c’è un femminile armonico ed amorevole, protettivo: la madre. La madre che lo aspetta alla fine della scale per stringerlo a se e farlo danzare in un malinconico bianco e nero. Quella madre alla quale Bruce dedicherà The Wish, una canzone struggente nella quale paga il tributo materno: ‘Se gli occhi di papà erano finestre su un mondo così mortale e reale, tu non potevi impedirmi di guardare ma mi hai impedito di strisciarci sopra’, per poi restituirle quel ballo che lo ha protetto lungo l’infanzia:
E se è un vecchio strano mondo, mamma, in cui i desideri di un bambino si avverano
Beh, ne ho alcuni in tasca e uno speciale proprio per te. Ci troveremo un piccolo bar di rock and roll e, cara, usciremo a ballare
Quella stessa madre, Adele, che Bruce inviterà più volte sul palco con lui. Io stesso l’ho vista due volte: un gesto che rinsalda e rinnova quel legame materno mai esaurito, capace di supplire a una presenza paterna che non ha voluto tenere il suo posto. Come molti individui attraversati da una vena malinconica, Bruce Springsteen non ha trovato mani forti che lo guidassero e lo introducessero nel mondo. Ha dovuto affrontare la realtà a mani nude, costruendo nella musica il suo sostegno, il suo appoggio vitale.
La trama seziona senza falsi pietismi i momenti bui di un uomo in tutto e per tutto simile ai soggetti depressi che entrano nello studio di un analista. Indugia nel suo malessere, nella sua testarda caparbietà, nel suo voler a tutti costi ritrovare un padre. Il regista crea questo incontro con un artificio cinematografico, una scena fuori dallo spazio-tempo nella quale un Bruce adulto incontra il padre quasi coetaneo, piegato dall’alcol, per potergli dire: “Volevo solo sentire la tua voce”.
Solo più tardi Bruce proverà a giustificarlo, dicendo che quell’uomo era impegnato a combattere i propri demoni interiori, assolvendo di fatto quella sua assenza che, tuttavia, lo segnerà per sempre. Lo farà dedicandogli una splendida My Father’s House, che finisce per restituire una nuova dignità alla casa paterna , abitata da un corpo malandato, devastato dall’alcol. Un vecchio che però ha bisogno del giovane Bruce, alla fine del suo cammino, quel figlio che accorre quando l’anziano viene ricoverato, ormai in ginocchio davanti a una vita nella quale non ha saputo introdurlo.
Questo è un film che racconta di un padre voluto a tutti i costi, nonostante abbia fatto l’impossibile per abdicare alla propria funzione. Un film che parla dell’amore materno, inesausto, che è andato oltre le difficoltà economiche e le ristrettezze dei mezzi.
Quindi, nessuna celebrazione. Noi fans già lo sapevamo. Mai una sola volta il regista cede al facile richiamo dei riflettori puntati, né mai viene mostrato uno solo dei concerti oceanici ai quali Bruce ci ha abituato. Nessuna fender che si alza in cielo, nessun monumento innalzato a sé stesso. Nessun ‘Boss’: questo film non è altro che una intima e struggente storia di un padre e un figlio che si sono cercati per tutta la vita, senza mai trovarsi.
Alla fine, solo alla fine, quado i titoli di coda scorrevano al suono di Atlantic city, ci siamo dati il permesso di alzarci in piedi e, con le lacrime trattenute per tutta la durata della pellicola, ballare.
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