Nine Inch Nails a Zurigo: dentro il cono di luce non esiste altro
- Postato il 27 giugno 2025
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- Di Il Fatto Quotidiano
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Giovedì 26 giugno sono andato a Zurigo per assistere al concerto dei Nine Inch Nails. Non era la prima volta che li vedevo dal vivo, ma stavolta è successo qualcosa di diverso. Difficile da spiegare, ma provo a farlo. Una cosa però te la voglio dire: se vuoi capire davvero, leggi con attenzione. Non correre. Segui la punteggiatura. Ogni punto, ogni pausa, ogni stacco ha un senso. Sono battiti. Sono respiri. Sono suoni, quelli dei Nine Inch Nails.
Nei consueti nove punti di questo blog voglio raccontarti cosa ho visto, cosa ho sentito, cosa ho capito. Cominciamo.
1. Il Taglio
Il cono di luce rossa è la prima cosa che si impone. Scende dal palco, netto, implacabile. Non apre. Divide. Non include. Seleziona. È un taglio nello spazio. Geometrico. Violento. Chirurgico. Si ha subito la sensazione che nulla, fuori da quel fascio, abbia più senso. Fuori è silenzio. Dentro comincia il rito.
2. L’inizio
Sul palco, prima di tutto, c’è Boys Noize, DJ e producer tedesco-iracheno. Traccia linee sonore con precisione. Un industrial secco, progressivo, che si traduce in una selezione rigorosa. Tra i richiami, una “Eisbär” dei Grauzone scintillante e obliqua: rimanda alla wave tedesca senza scivolare nel revival. Molto apprezzata. Boys Noize lavora di cesello, non di impatto. Costruisce un paesaggio. Una tensione. E il pubblico la recepisce. Chiude tra gli applausi, lasciando in loop i This Mortal Coil. E paradossalmente, per me, poteva bastare già quello.
3. Il rito
I Nine Inch Nails non salgono sul palco. Cominciano. Senza annuncio. Senza cortina. Un suono secco, abrasivo, apre tutto. Nessuna concessione all’attesa. Nessuna introduzione. È subito immersione. Quello che accade non è un concerto. È una funzione. Ogni brano un gesto. Ogni gesto un passaggio. Non si canta. Si partecipa. Si tiene il ritmo col corpo. Si entra in un codice. E si resta lì, finché tutto non si compie.
4. Il Limite
Avevano parlato di tre palchi. Di uno show espanso, modulare, itinerante. A Zurigo, due strutture laterali si intuiscono. Sembrano pronte a entrare in gioco. Ma restano fuori scena. Come in attesa. Probabilmente è l’Hallenstadion, per come è configurato, a non permettere lo sviluppo pieno dell’idea. Ma la resa, paradossalmente, ci guadagna. Meno spazio. Meno movimento. Tutto si concentra. Tutto pulsa esattamente lì.
5. L’Oscurità
Non è assenza. È struttura. L’oscurità dei Nine Inch Nails è una regia. Precisa. Pensata. Controllata. Non tutto si deve vedere. Non tutto si può. La luce compare solo quando serve. Taglia. Isola. Seleziona. Ogni zona d’ombra è parte del disegno. Reznor e gli altri si muovono dentro questo buio con precisione assoluta. Non sembrano seguirlo. Lo anticipano. Lo dominano. Appaiono. Spariscono. Riappaiono. La visione è parziale. Mai concessiva. Mai decorativa. Quello che succede è per chi riesce a starci dentro.
6. La sua Figura
Trent Reznor è lì. Dimagrito. Meno pompato del solito. Spigoloso. Teso. La tinta è appena fatta. Nero lucido. Nessuna sbavatura. Canotta di rete lunga, sopra una canotta più corta. Pantaloni cargo infilati negli anfibi. Il tutto, rigorosamente in total black. Non serve altro. Il corpo dice già tutto. E poi il volto. Proiettato sui teli. Inquadrato. Moltiplicato. Ogni parola è scolpita in faccia. Ogni respiro interpretato. Non canta soltanto. Recita. Conosce il peso delle pause. La potenza degli occhi. Il controllo del minimo gesto. E dentro quella luce, tutto si amplifica.
7. La prima fila
Non so nemmeno come, ma mi ritrovo in prima fila. Leggermente decentrato. Ma lì. Con visuale piena. È un privilegio raro. In Italia, sarebbe stata un’altra storia. Un’altra lotta. Noi siamo diversi. Arsi, “disposti a decollarci per un passo inerte, più in là.” Chi sa, capisce. Qui a Zurigo, invece, il pubblico è composto. Presente, ma mai pressante. E forse è proprio per questo che, senza volerlo, mi ci sono ritrovato. Davanti. Dentro.
8. Il disegno
La scaletta non ha bisogno di titoli. Si muove come un corpo unico. All’inizio è abrasione. Colpisce. Strappa. Nessuna introduzione, nessun avviso. È subito immersione violenta. Poi, lentamente, qualcosa si apre. Una pausa. Un respiro. Non è un cedimento. È strategia. Serve tempo per reggere il colpo. Serve spazio per sentire cosa sta arrivando. E infatti, quando riparte, lo fa più forte. Più netto. Più profondo. Il finale è un crescendo. Fisico ed emotivo. Totale. E la cosa più bella è che, ogni sera, cambia tutto. Ogni concerto ha una scaletta diversa. Basta con i gruppi che si portano dietro lo stesso copione per due anni di tour. Questa è un’altra cosa.
9. La fine
Il cono di luce si spegne. Il suono si ritira. L’oscurità si fa buio. Tutto finisce in un istante. Ma non svanisce. Le persone escono in silenzio. Disorientate. Sospese. Nessuna catarsi. Nessuna salvezza. Il rito si è compiuto. La benedizione è avvenuta. E il cono di luce — quella soglia netta, tagliente — ora non c’è più. Resta solo una domanda, muta, secca, nel corpo: dove siamo finiti?
Come sempre, questo blog si chiude con una connessione musicale: una playlist dedicata che puoi ascoltare gratuitamente sul mio canale Spotify — la trovi qui sotto. Se ti va, puoi lasciarmi nei commenti la tua opinione su quello che hai letto, su quello che hai ascoltato, oppure raggiungermi sulla mia pagina pubblica Facebook collegata al blog. La conversazione, da quelle parti, continua…
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